Sunday 27 December 2009

I dieci dischi fondamentali di questo 2009


Lo so, sono stato assente per più di un anno. Ma quello dei 10 dischi imperdibili è un appuntamento al quale non posso proprio mancare. Ecco dunque una lista dettagliata, dacchè una molto stringata l'ho pubblicata su facebook qualche tempo fa, dei 10 dischi che più di altri mi hanno fatto compagnia in questo 2009 ormai agli sgoccioli. Da notare che l'ordine corrisponde alla pura casualità.

- ...Trail of Dead: The Century of Self. Un ritorno in grande stile per la band di Austin, che dopo il poco ispirato So Divided sembrava aver imboccato l'inesorabile viale del tramonto. The Century of Self presenta invece una serie di brani dalla qualità alta, se non altissima, con vette inarrivabili in Isis Unveiled, Bells of Creation e Halcyon Days. Epico.

- Pearl Jam: Backspacer. Un altro gruppo che non mi aveva particolarmente entusiasmato con le sue ultime due uscite. Ed una certa tristezza cominciava a sopraffarmi, dato che i Pearl Jam...beh, sono i Pearl Jam, mi accompagnano dalla mia adolescenza e vederli perdere vigore e compattezza mi lasciava quantomeno malinconico. Backspacer è riuscito a spazzar via tutta la malinconia, riportando i cinque di Seattle a vette degne del loro nome: una mazzata rock miscelata alla mai sopita indole punk, con poche concessioni al lato più quieto. Vigoroso.

- Black Joe Lewis: Tell 'em what your Name is. Il 2008 aveva visto l'avvento di quel fenomeno del nuovo soul (anche se le sonorità erano assolutamente vintage) che risponde al nome di Eli Paperboy Reed. Il 2009 ha salutato l'altrettanto vivace e giovanissimo Black Joe Lewis. Meno delicato e sofisticato del collega, il buon Lewis si presenta con una pepatissima miscela a metà strada tra la Stax e l'Atlantic, con Wilson Pickett che duetta amabilmente con James Brown con la benedizione di Otis Redding. Fenomenale.

- Great Lake Swimmers: Lost Channels. Questi sono gli album che non mi stancherò mai di ascoltare, tanta è la passione e l'amore per i dettagli che mettono in mostra. Senza contare una qualità altissima a livello di songwriting ed un potere evocativo che raramente si incontra nelle produzioni odierne. Folk rurale vestito di indie, da ascoltare preferibilmente al tramonto, quando la distanza tra il dì e la notte si fa impercettibile. Sognante.

- Jeffrey Lewis and The Junkyard: 'Em are I. Cantautore con trascorsi punk proveniente dal giro del no folk della Grande Mela, quello in cui sono sbocciati i Moldy Peaches e Adam Green, tanto per intenderci, dal talento ironico ed obliquo. Questo album mette in fila deliziosi momenti di indie alternative folk con una perla come Roll Bus Roll che, almeno per me, è senza dubbio LA canzone del 2009. Rilassante.

- Radio Moscow: Brain Cycles. Una vera e propria sorpresa, sebbene siano al secondo album. Scoperto dal buon Dan Auerbach dei Black Keys, questo duo (che dal vivo si tramuta in trio) è dedito ad un blues rock dalle forti ascendenze hard, a metà strada tra le divagazioni Hendrixiane ed il roccioso sound del primo Zeppelin. Esplosivo.

- Alela Diane: To be Still. Una delle più belle voci del folk femminile contemporaneo alle prese con il secondo disco, dopo l'eccellente debutto The Pirate's Gospel. Meno spoglio dell'esordio, ma altrettanto ispirato, To be Still mette i fila una serie di brani dal sapore ancestrale, che ci portano nel cuore di un'America fatta di pionieri e di falò notturni, di torrenti che scorrono limpidi e di natura selvaggia. Evocativo.

- Woodpigeon: Treasury Library Canada. Eccellente debutto di una delle più promettenti formazioni indie attualmente in circolazione, tra richiami agli Shins e riflessi dei primi Radiohead. E con Piano Pieces for Adult Beginners avrebbero a bordo un pezzo da alta classifica, se i gusti dell'ascoltatore medio non fossero corrotti da tante porcherie radiofoniche. Vivace.

- Bob Log III: My Shit is Perfect. Con un titolo del genere non ci si può certo aspettare un disco riflessivo o particolarmente colto. Ma il rock n' roll è anche cazzeggio e delirio, ed il buon Bob in questo è maestro. Titolare di una formidabile one-man band, il folle che in concerto indossa un casco da aviatore con un microfono montato al suo interno ha un talento innato per brani che miscelano blues, garage e punk, sostenuti da ritmiche possenti ed accordi taglienti. Sporco.

- Franz Ferdinand: Tonight. Un grande ritorno per il quartetto scozzese, con pochi cambiamenti ma con il solito talento nel comporre canzoni che (citando Alex Kapranos, leader e cantante della band) "facciano muovere il culo alle ragazze". Ulysses, No You Girls e Lucid Dreams sono perfetti poemi pop condensati in poco più di tre minuti. Sculettante.

Friday 12 December 2008

Dischi fondamentali di questo 2008: gli ultimi 3...e qualche grande escluso

Come anticipato qualche post fa, ecco gli ultimi tre dischi fondamentali di questo 2008; ad osservare la mia classifica da vicino, mi rendo contro che la quiete, la tranquillità, gli aspetti più acustici e meno elettrici la fanno da padrona in questa top ten annuale. Segno che sto invecchiando? Non credo proprio, e a testimoniarlo, in seguito, ci penseranno alcuni esclusi, ottimi dischi, ma non in grado di competere con questi 10 eccellenti lavori.
Partiamo con la nuova sensazione indie a stelle e strisce, ovvero i Bon Iver: con l'album For Emma, Forever Ago la band ha inciso un minuscolo angolo di paradiso, in cui si possono udire tanto gli echi dell'intramontabile Neil Young, sopratutto nella tonalità della voce di Justin Vernon, deus ex machina del gruppo, quanto le influenze di un soul vecchia scuola e dei compagni d'etichetta Okkervil River. Brani come Flume, Skinny Love, The Wolves e Re: Stacks sono remote perle intrise di sentimento ed emozione; da lacrime agli occhi, da brividi, da godersi in tutta la loro innocente bellezza.
Neil Halstead, invece, sforna un disco, in larga parte acustico, anche se, a volte, supportato da una band, che cresce, in maniera davvero incredibile, ascolto dopo ascolto; l'ex Mojave3 pare essere il legittimo erede del compianto Nick Drake, e con Oh! Mighty Engine sembra elaborare il suo personalissimo incrocio tra Pink Moon e Five Leaves Left, dando alle stampe un album che sembra seguire il rilassato ritmo delle onde sul bagnoasciuga, con canzoni che, ondeggiando, sfiorano i piedi per poi rituffarsi nell'Oceano.
A chiudere la top ten ci pensano i Boduf Songs, nome dietro il quale si cela il solo Matthew Sweet, ragazzo inglese poco più che ventenne titolare di un sound, anch'esso acustico, scarno ed essenziale, piuttosto cupo e tenebroso. Il suo disco, How Shadows Chase the Balance, è un angolo di oscurità, figlio illegittimo di un altro grande che non è più tra noi, ovvero Elliott Smith, incrociato, in qualche modo, con la fragilità di Conor Oberst; le canzoni sembrano farsi largo tra ombre minacciose, quasi sgorgassero direttamente da un tetro cimitero abbandonato, ma lasciano, indubbiamente, il segno. L'iniziale Mission Creep sembra una silente marcia funebre, Things Not to be Done on the Sabbath potrebbe appartenere a degli Iron & Wine in un brutto trip lisergico mentre A Spirit Harness incornicia alla perfezione le ultime, nevose notti d'inverno.

Passiamo ora ai grandi esclusi di quest'anno: partirei dall'ultima fatica dei Datsuns, compagine neozelandese che amo sin dagli esordi. Il loro Headstunts cancella l'amaro in bocca lasciato dal precedente Smoke & Mirrors, presentando un quartetto nuovamente in gran forma, oltre ad una buona manciata di canzoni vigorose e compatte: dall'iniziale Human Error passando per Your Bones fino alla tellurica Highschool Hoodlums, la band spinge decisamente sull'acceleratore, e chi se ne fotte che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole di Auckland, di buon rock n' roll il mondo avrà sempre bisogno!
A seguire citerei gli altrettanto devastanti Morlocks, band rinata dalle ceneri degli anni ottanta, con a capo quello che, a suo tempo, era considerato il degno erede di Iggy Pop; Leighton Koizumi, dopo un decennio abbondante di abbandono ai demoni dell'eroina torna con un disco che legittima appieno l'aura di culto venutasi a creare attorno al suo personaggio ed alla sua musica. Easy Listening for the Underachiever è un condensato di selvaggio e primitivo protopunk, dove lo spirito degli Stooges si miscela alla perfezione alla quintessenza dei primordiali Sonics.
Un altro grande escluso di questo 2008 è sicuramente Lookout Mountain, Lookout Sea, interessante e divertente lavoro dei Silver Jews, band capitanata dall'ex Pavement David Berman. L'influsso dell'ex band è senz'altro presente nelle 10 composizioni di questo album, un po' per la loro (celata) sghembezza, un po' per quell'attitudine lo-fi cui il gruppo di Stephen Malkmus ci aveva piacevolmente abituato negli anni; ma i suoni si spostano anche in direzioni più rurali, finanche country, talvolta folk, creando un suono intrigante, supportato dalla profonda voce di Berman. Le vette sono costituite dall'iniziale What is not But Coulf Be If, dalla bossanova ascendente di Aloysius, Bluegrass Drummer e dall'erede della mitizzata Range Life, la rilassata Suffering Jukebox.
Per concludere, non posso dimenticarmi dei deflagranti Lords of Altamont, il cui The Altamont Sin mantiene le promesse del precedente Lords, Have Mercy; ci troviamo nuovamente in territorio neo-garage, in bilico tra i Fuzztones ed i 13th Floor Elevators, e credo che basti questo a spiegare il contenuto di questa ennesima prova di forza, potenza e cazzeggio rock n' roll. Per spiriti ribelli, s'intende!

Tuesday 9 December 2008

Bodies of Water: A Certain Feeling...

Ci sono dischi che si tramutano in capolavoro immediato, o quasi, non appena le loro melodie incontrano i padiglioni auricolari dell'ascoltatore. Mi successe un anno fa con Neon Bible degli Arcade Fire e, sul finire dell'anno, con In Rainbows dei Radiohead. Mi è successo qualche mese fa con A Certain Feeling, degli incredibili Bodies of Water.
Come già anticipato nel post dedicato ai primi sette dischi fondamentali di questo 2008, il quartetto statunitense composto da due coppie mi ha letteralmente fulminato con le sue composizioni, eclettiche e spesso complesse, ma mai fini a loro stesse e, anzi, dedite alla ricerca di una melodiosità rara, di quella idea di forma canzone che va al di là delle (indubbie) capacità strumentali. Con questo disco i quattro hanno partorito un insieme di canzoni profonde, sofferte, che spesso ti si attaccano letteralmente addosso, e che, nel contempo, necessitano di molteplici ascolti per essere assorbite e comprese in tutta la loro essenza. I richiami vanno spesso indietro nel tempo, verso la metà dei settanta, sopratutto per quanto riguarda le devastanti strutture ritmiche e gli ipnotici riff di chitarra, guardando, però, sempre in avanti, con costruzioni melodiche di scuola indie; se dovessi trovare un metro di paragone, definirei i Bodies of Water come un perfetto incrocio tra i sopracitati Arcade Fire, si pensi alla densità degli intrecci vocali, e certi Motorpsycho affogati in un oceano di psichedelia, con accenni Black Mountain e Portishead, per quanto riguarda la sensualità della voce femminile e l'oscuro intimismo di alcuni pezzi.
Gold, Tan, Peach and Grey, il brano d'apertura, lento e sognante prima di tramutarsi in un'epica cavalcata, è debitore dei canadesi che alcuni anni fa scossero il mondo musicale con Funeral; Under the Pines, tenebrosa, sostenuta da un tappeto sonoro flagellante, varrebbe da sola l'acquisto del disco. Water Here, funerea marcia di rara bellezza, prima che uno stacco degno dei migliori Modest Mouse la trasformi in una strana sorta di brano dancefloor lisergico, è un piccolo, grandissimo capolavoro. Senza contare Only You, dai bristoliani echi, o Darling, Be Here, che ondeggia sulle cupe acque dei fiordi norvegesi, o ancora If I were a Bell, suite in cui albergano alla perfezione tutti i molteplici elementi che rendono questa compagine davvero grande e unica nel panorama undeground mondiale.
A Certain Feeling, e ne sono certo, dimorerà ancora a lungo nel mio lettore cd, tante sono le luci e le ombre che vi si celano e che, poco per volta, si fanno vive, facendolo risplendere di bagliori sempre nuovi ed inattesi. Capolavoro, dicevo...

Thursday 4 December 2008

Wattstax: la Woodstock nera

Era l'agosto del 1972 quando a Los Angeles sbarcarono i maggiori artisti della leggendaria (e, di lì a qualche anno, ahimè, fallita) scuderia Stax, casa discografica dedita alla musica nera in tutte le sue variegate declinazioni, nata negli anni cinquanta in quel di Memphis, Tennessee.

Erano gli anni in cui l'orgoglio nero andava, man mano, affermandosi come qualcosa di più che non un semplice fenomeno di massa; era, di fatto, la graduale ma ferma presa di coscienza del popolo afroamericano dei propri diritti e delle proprie libertà. L'estate dell'amore e l'intero movimento flower-power erano ormai sepolti, finanche dimenticati, nelle fitte nebbie del passato; l'età dell'innocenza era inevitabilmente giunta al temine, non foss'altro che per l'impressionante serie di delitti della famigerata Manson Family, che scosse profondamente la comunità hippie, la rassegnazione che la guerra nel lontano Vietnam non sarebbe giunta al termine tanto velocemente come s'era, invano, sperato nei magici sessanta e, non da ultimo, il triste fatto che molti adoratori dell'lsd erano rimasti sospesi nella rarefatta aria dei loro abusi se non, e non era certo questa un'eccezione, piombati nel sinistro inferno dell'eroina.

In questo clima di eccitazione mista alle delusioni per un passato che sarebbe potuto essere ma non fu, i proprietari della citata Stax, in collaborazione con il festival losangelino Watt, decisero di promuovere un'intera giornata, il 20 agosto, in favore della musica nera, tentando di ricreare la magica atmosfera di Woodstock in un contesto (ambientale, culturale, musicale e politico) del tutto diverso; seguendo le orme no-profit del leggendario festival hippie del 1969, i biglietti non avrebbero avuto un costo superiore a 1 dollaro, mentre altri 50000 biglietti sarebbero stati regalati alle classi nere più povere. Quella che si materializzò di fronte al palco nel primo pomeriggio di quella domenica fu una folla di 112000 persone, a stragrande maggioranza nera, in un clima di festosa e pacifica convivenza; di fatto, e a ripensarci oggi fa davvero sorridere, non un solo agente di polizia era presente allo stadio quel giorno, e non si verificò alcun incidente.

Lo show prevedeva un overture dedicata al Reverendo Jesse Jackson, cui seguivano sette ore pressochè ininterrotte di musica, perlopiù di altissimo, se non eccelso, livello. Dal soul corale, debitore del più antico gospel degli Staple Singers al ruvido e possente funk degli incredibili Bar Kays, forti del recente successo del singolo Son of Shaft, qui presente in una dilatatissima e ritmatissima versione che sfiora i dieci minuti e manda letteralmente in visibilio la folla. Dal blues urbano di Albert King, la cui Killing Floor, che fu di Howlin' Wolf prima e di Jimi Hendrix poi, ne mostra tutta la potenza alla sei corde, al vigoroso soul, fortemente debitore (e come non potrebbe?) di Otis Redding targato Eddie Floyd, qui presente con la celeberrima Knock on Wood, passando per la maestosa chiusura affidata all'immenso Isaac Hayes, che, con l'assassino incedere del wah wah di Theme from Shaft cattura il pubblico in un groviglio funkadelico da brividi freddi.

Un box di 3 cd è stato pubblicato nel 2007 e contiene una testimonianza preziosa e imprescindibile che cattura un istante musicale irripetibile, oltre a rappresentare una perfetta istantanea di un'epoca di cambiamenti e di profonde rivoluzioni nel tessuto sociale della numerosa comunità afroamericana. Un documento musicale di rara bellezza.

Monday 1 December 2008

Johnny Cash. L'uomo in nero.

Un tempo scrissi di avere pochi idoli musicali. Vero. Non amo idolatrare le persone, preferisco piuttosto cantare le lodi della loro musica. Ma alcuni idoli esistono anche per me, e uno di questi è senza dubbio Johnny Cash; non solo un musicista di grande talento, un compositore straordinario, un cantante dalla voce unica, indescrivibile, ma anche, e sopratutto, un esploratore, un giocoliere musicale, una personalità forte e coerente, un uomo che, con tutte le sue debolezze, fa sentire l'ascoltatore parte del piccolo universo che viene a crearsi non appena le note della sua musica si dispiegano nell'aria.
Amo entrambi i lati di Cash; quello spensierato, dal tocco ribelle, dei primi anni cinquanta, quando, in compagnìa del suo Tennesse Two, batteva i palchi di tutti gli Stati Uniti col suo tipico sound "boom chicka boom", spesso accompagnato in tour da un altrettanto imberbe Jerry Lee Lewis e da quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, e compagna di tutta una vita, June Carter. Questo è il Cash rappresentato nell'emozionante (ma non del tutto fedele) biopic Walk the Line, uscito alcuni anni fa in tutte le sale cinematografiche e divenuto un successo immediato; è il Johnny strafatto di anfetamine ed alcool, ondivago nel suo ricercare la fede dimenticata, fermo nel creare ed elaborare il suo personalissimo sound. Che, a differenza di quanto possa pensare la massa, non è riducibile al ben delineato stile country, ma ingloba tutta una serie di influenze ed impressioni, che variano, di volta in volta, dal rockabilly al blues, passando per il suo amatissimo gospel. E' il Cash che scrive brani indimenticabili quali Folsom Prison Blues, Cry Cry Cry e Get Rhythm, nonchè l'interprete dell'immortale Ring of Fire, scritta per lui da June; è, sopratutto, il Cash che s'imbarca in un'infinita tournée nei penitenziari statunitensi, per portare la sua musica, impregnata di omicidi e di amori perduti, ai detenuti, da sempre suoi grandissimi estimatori. Da queste esperienze nasceranno album storici quali Live at Folsom o Live at San Quentin, spesso considerati come i migliori di questo suo primo scorcio di carriera.
Dicevo, amo entrambi i lati di Cash; ma, mentre il primo mi riempie di emozioni esaltanti, di fragorosa vitalità, il secondo, quello della vecchiaia, delle oscure riflessioni interiori, non fa che pervadermi di una nostalgia senza nome, di una rassegnata amarezza. Dalla metà degli anni novanta, grazie all'incontro con Rick Rubin, un Cash rovinatissimo nel fisico (gli anni di abusi ne hanno segnato, profondamente e indelebilmente, la salute) ma vigoroso, come sempre, nello spirito, da il là ad una collaborazione che diverrà leggendaria; la serie denominata American Recordings, in cui il musicista si cimenta con materiale altrui oltre che con composizioni proprie, è la testimonianza di un artista che giunge, lentamente, al capolinea, ma che si porta appresso una dignità ed una profondità rarissime ed encomiabili. Le canzoni si fanno sempre più spesso acustiche, mettendo in risalto una voce che con l'età ha sì perso in estensione, ma ha raggiunto uno spessore e un'intensità da brivido, riuscendo a toccare emozioni e sentimenti in maniera tanto genuina da far venire le lacrime algi occhi. Hurt, One, Bird on a Wire, Thirteen, Rusty Cage, e la lista potrebbe essere infinita, tanto la qualità è alta, celebrano, a modo loro, il testamento musicale e spirituale di una della più grandi voci della storia della musica moderna.
Sì, Johnny Cash è uno dei miei pochi idoli musicali; è quello che non ha mollato, è quello che è crollato ma ha saputo risollevarsi mille e mille volte, è quello che ha fallito ma, alla fine, è uscito vincitore da qualsiasi lotta. E' Johnny Cash, l'uomo in nero.

Saturday 29 November 2008

Las Vegas Grind: lasciva strip music dal cuore dei fifties

Navigando sullo splendido sito di Crypt Records, in cerca di sonorità perdute nelle dense nebbie del passato, mi sono imbattuto in una serie di copilation, in prevalenza strumentali, dall'enigmatico titolo Las Vegas Grind.
La curiosità mi ha spinto a scaricare i volumi 1, 2, 3, 5 e 6, e tra le mani mi sono ritrovato una (enorme) serie di brani elettrizzanti, spesso di qualità mediocre, fatto che, sorprendentemente, ne accresceva il fascino oscuro e vagamente malsano.
Musicalmente ci troviamo di fronte ad accenni rock n' roll, finezze blues e ritmiche di matrice soul, miscelate sapientemente ad ombre funk; canzoni brevi, spesso incorniciate da trombe e sax, il cui potere ipnotico ha davvero dell'eccezionale, scuotendo i bassi istinti, nonchè i fianchi, di chiunque. Musica pensata per locali strip degli anni cinquanta, con ballerine e go-go dancers ad esibirsi di fronte ad un pubblico libindinoso; musica che oggi, a distanza di mezzo e più secolo, risuona vivace e fresca, capace di riempire in un brevissimo lasso di tempo qualsiasi pista da ballo!

Wednesday 26 November 2008

Dischi fondamentali di questo 2008: i primi 7

L'anno solare 2008, personalmente un momento di vera e propria rinascita dopo i giorni oscuri, colmi di solitudine e tristezza, dei due anni precedenti, è stato accompagnato, com'è ormai radicata abitudine, da una sua personale colonna sonora.
Una classifica provvisoria, dato che al 31 dicembre mancano ancora un paio di settimane ed ho diversi album in attesa d'essere comandati, ma di queste sette titoli credo che solo alcuni siano a rischio d'essere esclusi a favore di nuove entrate più entusiasmanti.
Ad aprire l'anno, già nel mese di gennaio, ci hanno pensato gli incredibili Black Mountain, la cui prima fatica m'era piaciuta, certo, ma è con In the Future che hanno compiuto un definitivo passo in avanti. Disco pressochè perfetto, a metà strada tra la psichedelia di fine anni '60 ed il rock vigoroso del decennio seguente, con i poderosi riff à la Black Sabbath in testa.
Anche la seconda prova del progetto (termine invero offensivo, data l'altissima qualità musicale del quartetto e delle composizioni offerte) di Jack White, The Raconteurs, mostra incoraggianti segnali di crescita rispetto al già eccellente debutto. Consolers of the Lonely spinge il piede sull'accelleratore, virando in maniera decisa ma non scontata verso un rock figlio tanto del garage debitore dei sixties quanto del blues stratificato del dirigibile di piombo.
Le atmosfere si diluiscono in un unisono di voci e strumenti acustici con i sorprendenti Fleet Foxes; capitanati da un ragazzo poco più che ventenne, i quattro di Seattle (ma il grunge non ha davvero nulla a che vedere con loro) hanno registrato un disco che sembra crescere ascolto dopo ascolto, con i suoi echi West Coast (Crosby, Stills, Nash & Young in primissimo piano) abilmente miscelati ad atmosfere di stampo medievale e finanche celtico. Per restare nel rassicurante angolo del mondo indie, non posso non citare con entusiasmo i Bodies of Water, il cui album A Certain Feeling ha tutte le carte per essere considerato un capolavoro. Composti da due coppie, gli americani propongono un mix di rara originalità, oscillante tra i già citati Black Mountain, i fondamentali Arcade Fire ed i Modest Mouse; forse l'album dell'anno per il sottoscritto, tante sono le emozioni che riesce a risvegliare. Una conferma, invece, gli Okkervil River, che con The Stand Ins, seguito ideale di The Stage Names, edito poco più di un anno fa, portano avanti il loro discorso di un indie-folk-rock personalissimo, con la splendida voce di Will Sheff in primo piano. Dopo averli (ri)vissuti dal vivo il 19 novembre in quel di Milano non posso che confermarli come uno dei più solidi edi interessanti gruppi underground attualmente in circolazione, forti di un leader il cui talento compositivo sembra esser inesauribile.
Virando verso lidi dal sapore più antico, come non essersi accorti, quest'anno, della giovane promessa del nuovo soul-blues a stelle e strisce? Eli Paperboy Reed, con Roll with It, ha confezionato un'opera che potrebbe esser uscita nel pieno degli anni sessanta. Ci si ritrovano tanto Rufus Thomas quanto Sam & Dave, passando per l'inarrivabile Otis Redding e giungendo fino alla selvaggia irruenza di James Brown; e l'aspetto più incredibile di questo disco senza tempo è che Reed, pur possendendo una voce nera, anzi, nerissima, è bianco! Sperando che la sua stella non tramonti nel giro di qualche anno, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio fenomeno. Attendo con ansia la sua conferma su palco.
Concludendo questa parziale top ten cito, con immenso piacere (vedi anche post precedente) il mitico, e per giunta simpaticissimo, Langhorne Slim; sebbene il suo secondo lavoro non possegga più l'irriverente impatto del primo, è innegabile che lo spessore della sua scrittura, oltre alla sua inconfondibile voce, resta altissimo, rendendolo, di fatto, uno dei più grandi cantastorie d'oltreoceano.
In attesa che altri tre dischi vadano a completare questa classifica, consiglio a chiunque capiti su questo blog di dare un ascolto a questi sette album, ne vale la pena, davvero!