Friday 27 April 2007

Le Regine preistoriche stanno tornando


Tra un mese e poco più uscirà il quinto capitolo della saga discografica dei Queens of the Stone Age; Era Vulgaris, questo il titolo dell'album, sarà nei negozi sul finire di giugno, e non c'è occasione migliore di questa per fare un salto a ritroso nel tempo, per arrivare laddove tutto cominciò.
Correva l'anno 1998, i Kyuss, ensemble che ridefinì i confini del hard rock e dintorni dando avvio al movimento del cosìdetto stoner, erano ormai storia di ieri. Dalle loro ceneri il cantante (e che cantante!) John Garcia diede vita dapprima agli Slo-Burn, seguiti dagli Unida e, in tempi più o meno recenti, dagli Hermano, creature musicali abbastanza vicine al suono della band madre, già solo per l'inconfondibile stile vocale del frontman. Sull'altro fronte, il batterista Alfredo Hernandez e, sopratutto, il chitarrista Josh Homme intitolarono la loro nuova ragione sociale Queens of the Stoen Age; l'album omonimo, uscito quello stesso anno, lasciava ben sperare. Homme, passato anche al ruolo di cantante, forse con minor carisma rispetto a Garcia ma comunque efficacie, è da subito il deus ex machina del tutto, e sarà l'unico della line up iniziale a resistere fino ad oggi; i Queens, proprio nelle parole del loro leader, vanno visti come una comunità musicale apertissima a interventi esterni, e questo si paleserà in maniera assai evidente nelle successive prove su disco.
Parlando del debutto, accolto con un certo entusiasmo da stampa e fans di vecchia data, si può dire che è un condensato di riff rubati agli anni settanta miscelati al sound desertico che aveva fatto dei defunti Kyuss una vera e propria leggenda, con gli angoli più estremi comunque parecchio smussati, il tutto accompagnato da una voce che sembra essersi trascinata lì dopo settimane di totale dedizione ad ogni sorta di droga.
Che l'influsso di stupefacenti faccia parte della musica delle Regine è innegabile, sopratutto di fronte alla seconda prova discografica dei nostri; R, questo il titolo dell'album, parte col micidiale assalto di Feel Good Hit of the Summer, il cui testo si limita alle parole "nicotine, valium, vacodine, marjuana, extasy & alcohol" con un bel "co-co-co-cocaine!" come ritornello. Anche l'eccellente e psichedelica Better Living Through Chemistry conferma le tendenze autodistruttive del gruppo capitanato da Homme, gruppo che comincia ad allargarsi e ad ospitare nomi eccellenti; a parte il ritorno del figliol prodigo Nick Oliveri, andatosene dai Kyuss ben prima dello split, ritorno invero importante, dacchè sarà lui l'alter ego folle innamorato di hard-core (e di massicce dosi di cocaina, pare) di Homme, vanno registrati ospiti come Rob Halford, Barrett Martin e, sopratutto, Mark Lanegan, che da qua in avanti navigherà spesso sulla nave dei Queens.
Alla produzione torna quella vecchia volpe di Chris Goss, colui che scoprì i Kyuss quasi un decennio prima, colui che conferì loro quell'inconfondibie sound e che lo stesso fece con la creatura in questione, senza dimenticare la sua band, gli incredibili Masters of Reality.
R fu la vera svolta per le Regine, un po' perchè supportati da Interscope per la distribuzione, un po' perchè il suono del gruppo cominciava a farsi davvero inconfondibile, un po' perchè Homme e compagni stavano scoprendo, a modo loro, ovviamente, il proprio lato pop; testimonianza sono brani come l'accattivante The Lost Art of Keeping a Secret e Auto Pilot, cantata ( e non urlata a squarciagola, come suo solito) da Oliveri.
La consacrazione come una delle migiori e più fresche realtà del rock di inizio millenio arrivò nel 2002, con quel Songs for the Deaf che è già da considerarsi una pietra miliare nella storia della musica. L'ospite, con la L maiuscola, a questo giro di boa è nientemeno che Dave Grohl che, accantonati momentanemente i suoi Foo Fighters, torna dietro le pelli a fare ciò che sa far meglio: pestare come un ossesso con quella sua precisione e delicatezza che, in più di un'occasione, fa tornare alla memoria lo stile unico ed inconfondibile di un certo John Bonham. Il risultato, con Lanegan sempre più presente (e sempre più spettrale), è stupefacente; i brani, tenuti insieme da un fil rouge rappresentato da una fantomatica radio, tengono alto, anzi, altissimo il ritmo, fin dall'iniziale Millionaire, dalla successiva e celeberrima No One Knows, dall'attacco secco di First it Giveth, dall'apocalittica The Sky is Falling, dalla malefica Hanging Tree, dalla melodica Go with the Flow e dall'incredibile mini opera che da il titolo al tutto. Un capolavoro senza tempo, questo Songs for the Deaf, e non aggiungo altro, perchè il solo alscoltarlo può davvero dare il senso della sua grandezza.
Cosa succede quando si raggiungono le vette più alte, anzi, la più alta di tutte? Se non si può più salire si cerca di restare lassù, a respirare la dolce aria dei trionfi, ma non sempre ci si riesce, e allora si rischia di cadere un paio di gradini più in basso. E' quel che è successo col quarto album dei Queens, quel Lullabies to Paralyze che, pur restando un buon disco con ottimi episodi (Medication, In My Head e Little Sister su tutti) risente del pesante paragone col recente passato e, anche se Homme non lo ammetterà mai, della dipartita di Nick Oliveri, causata dall'effervescenza (chiamiamola così) del suo carattere. Nulla di grave, ci mancherebbe, ma la sensazione è che la vena creativa del leader e dei suoi compagni stia andando esaurendosi; speriamo vivamente di no, perchè i Queens of the Stone Age sono uno dei pochi gruppi rock odierni in costante e continua ricerca, e sarebbe un peccato se smettessero proprio ora di stupirci.
Aspettando la loro quinta fatica, non mi resta che immergermi nei precedenti lavori delle Regine preistoriche, godendomi il suono del loro deserto, là, nei pressi di Joshua Tree, dove tutto cominciò...

Thursday 26 April 2007

The Black Keys: il sapore del blues e del garage

Ho scoperto questo eccezionale duo circa tre anni fa, grazie alle parole d'elogio espresse da un certo Robert Plant (insomma, non proprio l'ultimo arrivato in fatto di musica, blues in particolare); mi ci sono avvicinato con l'ottimo Thickfreakness, del 2003, pubblicato su Fatpossum, che ha poi sfornato l'incredibile Rubber Factory solo un anno dopo e, per chiudere il contratto, i due hanno inciso sei brani del compianto Junior Kimbrough tributandogli l'onore che merita (e che spesso viene dimenticato), nell'ep Chulahoma, faccenda di un annetto fa.


Magic Potion è il loro ultimo lavoro in ordine di tempo; uscito nell'estate 2006 ha accompagnato, col suo vibe blueseggiante sporcato del garage rock più primordiale, le mie giornate d'agosto. Il suono del duo (Dan Auerbach: chitarra e voce, Patrick Carney: batteria) si è fatto più denso, coeso, non togliendo però nulla alla freschezza selvaggia di composizioni come Your Touch, Just a Little Heat, Strange Desire e l'incredibile Modern Times.


Con la ballata You are the One i Black Keys sembrano addirittura voler omaggiare il signor Hendrix, tanto il giro di Auerbach sembra essersi plasmato sulle note dell'immortale Little Wing del Maestro.


Più vicini agli anni settanta che non alle sfuriate soniche del decennio precedente, i due hanno sfornato un (ennesimo) capolavoro, che, seppur non aggiungendo nulla di nuovo al panorama rock odierno, lo delizia con (pochi) minuti di musica decisamente eccitanti.

Saturday 7 April 2007

Dal Krautrock al Krautpunk


Il loro precedente Smack Smash aveva riscosso, almeno in Germania, consensi unanimi; trainato da singoli eccellenti come Hand in Hand ed Hello Joe (dedicata a Joe Strummer), l'album aveva fatto fare al quintetto d'oltralpe un deciso salto di qualità.
Tre anni dopo i Beatsteaks tornano con questo Limbo Messiah e proseguono, grossomodo, sulla falsariga del predecessore: un punk infetto di pop (ma di classe, non parliamo di Sum 41 o Blink 182), debitore, tanto per restare in tema, dei primi Clash ma anche di certa new wave anni ottanta.
Il tempo dirà se Limbo Messiah reggerà il paragone con Smack Smash, per ora lasciamoci cullare, energeticamente, s'intende, da brani come l'iniziale As I Please, dal singolo Jane Became Insane o dalle finezze (lievemente) contaminate di elettronica di Cut Off the Top.
Una piacevole conferma... il 29 maggio saranno di scena al Volkshaus di Zurigo, consiglio vivamente di esserci.

Friday 6 April 2007

Okkervil River: una fiaba fatta musica

Gli Okkervil River sono una delle realtà musicali piu' interessanti degli ultimi anni, ed anche una delle meglio nascoste agli occhi del grande pubblico; forse è questo status underground a conservarne il fascino misterioso, fascino che solo le indie bands meno esposte conoscono e, sopratutto, a preservarne la musica, mantenendola, di fatto, fresca, intensa, sincera.

Ho avuto modo di scoprirli grazie alle letture del Mucchio, rivista a cui saro' sempre grato per tutti quegli straordinari incontri musicali che ogni mese mi permette di fare; il mio primo approcio al mondo di Will Sheff (il deus ex machina del tutto, dalle musiche alle incredibili copertine) e soci l'ho vissuto sulle note dell'ep Black Sheep Boy Appendix, uscito a fine 2005 come ideale compendio all'album Black Sheep Boy. Quelle sette tracce mi stregarono a tal punto che, di lì a poco, mi portai a casa anche il suo predecessore ed altri due album della band, Don't Fall in Love with Everyone you see e Down the River of Golden Dreams.

Che dire della musica? Lo definirei, ma facendolo limiterei di molto il potenziale espressivo del gruppo, come una sorta d'incontro tra il folk di stampo tipicamente americano, un country venato di alternativo, la sghembezza dell'indie rock e, non da ultimo, una sottilissima vena dark, accentuata, direi, nelle ultime prove.

Brani come No Key, No Plan e Another Radio Song, da Appendix, sono incredibili esempi di altrettanto incredibile ispirazione; per non parlare di Black o For Real, contenute in Black Sheep Boy, o della dolcissima e malinconica Seas Too Far To Reach, tratta da Down the River of Golden Dreams. Ma sono gli album nel loro insieme a rendere grandi, anzi, immense, queste piccole composizioni sonore che crescono, s'ingigantiscono, ascolto dopo ascolto.

Dal vivo gli Okkervil River sono un'esperienza unica, tanto l'alchimia tra gruppo, e Sheff in particolare, dotato di una voce e di un carisma veri, e pubblico é intensa.
Come dico sempre: provare per credere, controindicazioni non ve ne sono affatto.

Tuesday 3 April 2007

A-ha Shake Heartbreak: sono tornati i parenti di Leon


Ne é passato di tempo dal mio ultimo post. In effetti, senza piu' internet a casa era assai difficile tenere aggiornato il blog; vabbé, spero di non assentarmi piu' tanto a lungo.


Per inaugurare la primavera ho pensato di celebrare il ritorno dei Kings Of Leon, un gruppo i cui primi due dischi mi avevano molto colpito e coinvolto, nonostante il fatto che di nuovo, sotto il sole, non ci fosse molto.

Se su Youth & Young Manhood i tre fratelli piu' cugino sembravano una sorta di versione punk dei Creedence Clearwater Revival, sul successivo Aha Shake Heartbreak il sound cominciava a farsi piu' personale, influenzato da una certa vena metropolitana cara agli Strokes, sempre e comunque dominato dall'inconfondibile voce di Caleb Followill.


Brani come Holy Roller Novocaine e California Waiting, dal primo lavoro, o Bucket e Taper Jean Girl dal secondo hanno il sapore dei classici, almeno per il sottoscritto.

Il 30 marzo è uscito, finalmente, direi, dato che l'attesa durava dal 2004, il terzo album del quartetto, Because of the Times; ammetto di non averne avuto che un rapido assaggio, in attesa che il postino mi consegni l'agognato pacchetto, ma l'impressione è che i Kings stiano completando una maturazione che, nel prossimo futuro, potrebbe regalarci tante soddisfazioni musicali. Incrociamo le dita...