Monday 25 June 2007

Lemonheads: grazie di esistere (di nuovo)

Dalle nostre parti, nel Vecchio Continente, non hanno mai goduto di una grandissima fama, se si esclude il tormentone Mrs Robinson, che risale a più di un decennio fa, quando, facendo loro lo splendido pezzo di Simon & Garfunkel, ebbero una risonanza più o meno mondiale.
Tralasciato quest'estemporaneo episodio, il gruppo capitanato da Evan Dando, compositore, cantante e chitarrista della band, sparì lentamente nel nulla, su entrambe le sponde dell'oceano, affogando, come spesso accade, di paripasso agli eccessi del proprio leader. E fu un vero peccato, poichè i Lemonheads, nati nella seconda metà degli anni '80 ed inizialmente dediti ad un hardcore melodico fortemente debitore degli Hüsker Dü più maturi, erano stati un ottimo gruppo, sopratutto quando avevano iniziato ad incanalare nella loro musica elementi di quella nascente scena indie che, di lì a poco, avrebbe portato alla ribalta, non solo nazionale, nomi quali Dinosaur Jr e Pavement.
Album quali Come On Feel e, sopratutto, It's A Shame About Ray sono dei veri gioiellini, strabordanti melodie, armonie ed una vivacità contagiose; canzoni apparentemente innocue come la titletrack di quest'ultimo, Rudderless, It's About Time o Style sono piccole gemme indie dalle pressochè perfette sfumature pop.
Purtroppo, come detto, i soliti eccessi da rockstar ebbero la meglio su questo piccolo e meraviglioso universo, intaccandone inevitabilmente qualsivoglia possibile lieto fine; il gruppo si congedò con un album abbastanza trascurabile e Dando si perse nelle fitte nebbie delle dipendenze. Il buon Evan fece ritorno sulle scene quasi dieci anni dopo con un album in solitaria decisamente degno di nota, in cui l'amore per il lato più acustico della sei corde si palesò in tutta la sua interezza. Ma, a conti fatti, anche a lui devono essere mancati, almeno come ragione sociale, i suoi Lemonheads.
Sul finire del 2006 esce così la nuova fatica della riformata band (di cui, ad onor del vero, l'unico superstite è il solo Dando); in sordina, senza un titolo, quasi a voler dire "Hey, in realtà non ho bisogno di grandi celebrazioni, perchè non me n'ero mai andato". Ed il disco soddisfa appieno le attese, calandosi a ritroso nelle ombre del tempo, quasi fosse stato registrato quando le teste di limone si cullavano ancora nella beatitudine e nella spensieratezza della gioventù. E noi fans con loro.

Sunday 24 June 2007

Dal deserto allo spazio profondo


Dopo settimane passate ad annacquarmi il cerebro con canzoni tra il melenso ed il patetico andante sto finalmente tornando alle mie origini, ovvero ai ruvidi suoni del rock più crudo e meno propenso a compromessi.
Dopo il celebrato ritorno dei sempre amatissimi White Stripes è il turno della nuova creatura musicale di Chris Goss, nome forse non conosciutissimo ma d'importanza a dir poco fondamentale per quello che è stato il rock a stelle e strisce degli ultimi 15 anni. Fu infatti lui a scoprire, agli inizi degli anni '90, un gruppo di scapestrati dedito ad un sound cupo e vibrante, memore del doom quanto dei primi Sabbath; questo gruppo erano i Kyuss. Dalle loro ceneri, come sappiamo, nasceranno in seguito i Queens of the Stone Age, i vari progetti delle Desert Sessions, gli Slow Burn, gli Unida, gli Hermano e un'altra mezza dozzina di bands di medio-corta durata.
Ma Goss era, ed è, oltre che profondo conoscitore ed amante della musica, anche un talentuoso musicista; con i suoi Masters of Reality ha realizzato dischi di ottima fattura ed almeno un capolavoro, che risponde al titolo di Sunrise of the Sufferbus, in cui è affiancato, alle pelli, nientemeno che da Ginger Baker, il leggendario ex-batterista dei Cream, prima, e dei Blind Faith, poi.
Accantonato momentaneamente il suo progetto principale, il signor Goss si unisce a Geordie White (il Twiggy Ramirez che si celava dietro al basso nei primi dischi di Marylin Manson ed, in seguito, degli A Perfect Circle) e Zach Hill, degli Hella, per dar vita a questi Goon Moon; il sound è vicinissimo a quanto siamo abituati a sentire nei dischi dei Masters, con l'elemento psichedelico che sembra miscelarsi quasi alla perfezione ai suggerimenti pop ed alle chitarre, spessissimo, imparentate coi Queens. Non a caso, tra gli ospiti presenti non poteva mancare Josh Homme, fedele compagno di viaggio di Goss sin dalla gioventù; il suo influsso, sopratutto alla sei corde, è senz'altro riscontrabile in pezzi tirati e trascinanti come My Machine, Feel Like This e Tip Toe.
L'amore sempre dichiarato di Goss per i Beatles si palesa poi nell'iniziale Apple Pie, dove i quattro baronetti di Liverpool sembrano incontrarsi con il sabba nero di Birmingham, ed in divagazioni quasi brit pop come Lay Down e Balloon?.
Con The Golden Ball c'è poi una suite di quasi dieci minuti in cui affiorano trent'anni e forse più di storia del rock, partendo dai Buffalo Springfield per planare coi primissimi Led Zeppelin.
Un bel disco, questo Licker's Last Leg, da consumare con la stessa passione con cui, sicuramente, è stato concepito e registrato...

Friday 22 June 2007

The White Stripes are back...

Sono uno dei gruppi rock più veri in circolazione, dediti alla musica come pochi altri, capaci di sfornare con un'impressionante regolarità album ottimi se non, addirittura, eccellenti.

Un duo perfetto, con un compositore, Jack White, in grado di scrivere brani che ti si appiccicano addosso come miele o che, in taluni casi, divengono veri e propri inni; basti pensare a Seven Nation Army, colonna sonora non ufficiale della nazionale italiana al mondiale di Germania dello scorso anno (personalmente lo trovo un mezzo peccato, dacchè la canzone, con uno dei riff più memorabili degli ultimi decenni, ai miei occhi, perlomeno, è totalmente sputtanata). Alla batteria siede Meg White, sua partner musicale (e non solo, per un certo lasso di tempo) fin dagli albori; certo, non è John Bonham nè Keith Moon, ma il suo dovere lo fa sempre, con precisione e potenza, nonchè con un groove che molti superbatteristi da conservatorio si sognano.

Dicevo, uno dei gruppi rock più veri, poichè portano avanti il loro discorso musicale da quasi un decennio, senza farsi contaminare da fattori esterni, mode passeggere o manie di grandezza; con i Raconteurs, poi, il signor White ha pure fondato una sua seconda creatura musicale degna di nota, accompagnato nell'impresa (riuscitissima, direi) da Brendan Benson e dalla sezione ritmica degli ottimi Greenhornes.

Ma torniamo ai White Stripes e alla loro ultima fatica, questo Icky Thump, da pochi giorni in circolazione; mi è stato recapitato solo oggi dallo zelante postino di paese e, a parte il singolo che da il nome al tutto (prima titletrack per il duo) e che già da un po' avevo avuto occasione di apprezzare, con quel suo irresistibile richiamo al dirigibile di piombo, già si lascia intravedere una struttura assai più rock rispetto al precedente (e coraggioso) Get Behind Me Satan, dominato in larga parte dal piano.

Qua la chitarra torna a fare il diavolo a quattro, e non si può proprio dire che non mi fosse mancata; White, oltre che ottimo compositore e cantante versatile, è anche un grandissimo chitarrista, privo delle seghe mentali dei virtuosi, focalizzato sull'essenza del brano, ed è questo che rende tanto magico il suo stile. I brani che solcano le onde di questo nuovo, piccolo oceano di sorprese e meraviglie si muovono tra il rock dei primi settanta, con i soliti Zeppelin in testa, ed il folk del decennio precedente, senza disdegnare più di un'occhiata al country e alla psichedelia.

Insomma, i soliti, per così dire, ingredienti per il duo di Detroit, che ha ancora la voglia e la capacità di sorprendere e deliziare l'ascoltatore; sono pochi, anzi, pochissimi, i dischi che comprerei a scatola chiusa. Con i White Stripes non mi è mai andata male, un perchè ci sarà, o no?

Tuesday 19 June 2007

Coldplay: i ricordi che ho dimenticato


Sono in un mood quantomeno malinconico, me ne rendo conto; il motivo è sempre il solito, ma preferisco tacerlo, in fondo il blog è pubblico, e non mi vorrei sputtanare in diretta. Comunque, tornando alla musica che ascolto in questo periodo, per completare il quadretto per cui ognuno di voi mi dovrebbe prendere a sberle, aggiungo con piacere, e con un tocco di puro autolesionismo, i Coldplay; premetto che è un gruppo che apprezzo davvero, nonostante la loro ultima fatica discografica non mi avesse convinto del tutto, e questo loro secondo lavoro, A Rush Of Blood To The Head, lo considero un ottimo album.
Già il debutto Parachutes lasciava intravedere notevoli potenzialità, trainato da brani intensi e delicati quali Yellow, Shiver e, sopratutto (almeno per me) Trouble, ballata dominata dal piano e dalla calda voce di Chris Martin; i quattro inglesini si ponevano come valida via di mezzo tra i primi Radiohead e quel nuovo brit pop che stava nascendo con l'avvento del nuovo millennio.
Il successo fu pressochè immediato, bissato dal seguito, questo album in cui si sussegue un successo dopo l'altro; Politik, In My Place, God Put A Smile Upon My Face, e mi fermo qui, perchè dovrei praticamente citare l'intera scaletta del disco per non fare torto ad alcun brano.
E' nel complesso che queste melodie tendono a bagnare gli occhi e a far tremare il cuore, facendo rinascere in me ricordi di un amore passato, che, inspiegabilmente, si mescolano alle indefinite emozioni che provo ora, notte e giorno. Una sorta di vortice spazio-temporale in cui confluiscono molteplici sentimenti che non mi so spiegare, ma che sembrano voler tracciare una linea ben definita nell'orizzonte infinito che mi si staglia dinnanzi...

Tuesday 12 June 2007

Sulla spiaggia con Neil

Neil Young è uno dei miei (pochi) idoli musicali. Quello che ha fatto lui in quel magico decennio, tra la fine dei sessanta e l'avvento degli ottanta, non può che esser oggetto di infinita ammirazione e gratitudine. Neil ci ha regalato una manciata (abbondante) di album che definire pietre miliari non è un'esagerazione, ma solo il giusto tributo ad una vena compositiva che pareva inesauribile.

E' nel decennio successivo che Mr Soul ha abbandonato la retta via, ma in questo era, ahimè, in buona compagnia (vero, signor Zimmerman?...)...sul finire di quegli oscuri e bui anni ha ritrovato il cammin perduto, ma è agli albori che vanno ricercati i suoi veri capolavori, sia in solitaria che in combutta con Crosby, Stills & Nash.

A parer mio l'apice della sua produzione di quegli indimenticabili anni è rappresentato da questo On The Beach, forse non stracolmo di hits, ma tanto coeso, denso, inscindibile da sembrare un macigno che ti si schianta in pieno volto.

E' il dolore (tanto per cambiare) a rendere On The Beach il capolavoro che è; erano periodi neri, nerissimi, quelli, per il nostro, e la musica che ne scaturiva non poteva che essere impregnata fino all'anima di quello spirito desolato e desolante.

Rassegnazione, pensieri sfuggenti, malinconici lamenti, ecco gli ingredienti di quest'album, di cui non serve citare canzone alcuna, tanto l'impasto sonoro che lo forma sembra non volersi disgregare, neppure (anzi, sopratutto) dopo il milionesimo ascolto.

Ricorda la scìa lasciata da un aereo, nel cielo tinto di rosa, quando il sole comincia a spegnersi per fare posto alla luna, melodie e note che si estinguono e rinascono all'orizzonte, laddove il giorno finisce, per riniziare dopo poche ore di tenebre...magico...

Monday 11 June 2007

Canzoni patetiche con cui sciogliersi in un brodo di giuggiole

Ebbene sì, sto perdendo colpi!
Nelle ultime settimane, causa un evento imprevisto e del tutto inusuale per me (almeno, pensavo fosse inusuale, ma mi sbagliavo) di cui preferirei evitare i dettagli, ho cominciato ad affondare nelle note delle canzoni più strappalacrime (o strappamutande, come direbbe qualcuno) che la mia giovane mente abbia mai conosciuto.

Ve ne sottopongo un elenco; forse un giorno me ne pentirò, ma, ora come ora, sono soggiogato dalle note dei brani a seguire. Buone risate.

Al primo posto, inattaccabile, metto A Whiter Shade Of Pale dei mitici Procol Harum; credo che più a fondo di così non si possa davvero andare!
A seguire direi Unchained Melody, dei Righteous Brothers; avete presente la scena di Ghost (arghhh!!) con Demi Moore che modella l'argilla? Ecco, oggi come oggi io mi sento quel pezzo d'argilla.
Al terzo posto piazzerrei Killing Me Softly di Roberta Flack, tanto per galleggiare impunemente su un mare di patetica malinconia....e già sto toccando il fondo.
Quarto posto a When A Man Loves A Woman di Percy Sledge; se siete diabetici, a questo punto, rischiate davvero un'overdose di zucchero.
Per chiudere questa dubbia (e raccapricciante) top five, scelgo Sweet Child O' Mine, dei Guns N' Roses; ecco, se mi vedete per strada potete anche prendermi a pugni, magari riuscite a destarmi da quest'abisso di mielose e melense canzoni. Io, per ora, ne sono schiavo, e credo di essere sull'orlo della follìa...

Wednesday 6 June 2007

Nine Inch Nails, ma dove siete finiti?

Una bella domanda, davvero! Insomma, il nuovo disco, Year Zero, è uscito da un po', preceduto dal singolo Survivalism; già quest'ultimo mi aveva lasciato perplesso, in un primo tempo, ed amareggiato, in seguito. Una schifezza orripilante, se devo essere sincero; pop elettronico prevedibile, scontato, privo di qualsivoglia mordente, del tutto svuotato da quel mood malsano ed oscuro che accompagnava, in genere, le uscite discografiche del signor Reznor.

Beh, diciamo che alcune avvisaglie c'erano già state con l'ultimo album; alla lunga l'avevo trovato un disco noioso, a parte qualche buon episodio qua e là, sopratutto se paragonato al suo illustre predecessore, quel The Fragile che era stato un po' la summa del lavoro dei Nine Inch Nails.
Ma, mi dicevo, un passo falso (in questo caso un mezzo passo falso, ad esser onesti) può capitare a tutti, invece...suonerà cinico e stupido, ma credo, anzi, sono certo, che la scarsa ispirazione di Trent Reznor coincida con la sua recente disintossicazione da alcool e droghe varie. Insomma, Mr Self Destruct ha messo la testa a posto e, per quanto possa essere felice per lui come persona, non lo sono altrettanto per quanto riguarda lui come artista.

Dischi come The Downard Spiral, Broken e il già citato The Fragile nascevano dalle tenebre oscure della sua mente malsana; era una musica affogata nell'eccesso, nel nichilismo, nell'odio e nel dolore, e proprio per questo risultava così valida, così vera, così unica.

La realtà, per quanto possa far male, è che l'ispirazione, spesso, tende a svanire, e con essa la buona musica e le emozioni che era in grado di suscitare. E, putroppo, nemmeno Trent Reznor fa eccezione...

Tuesday 5 June 2007

Blackmail, un segreto fin troppo ben custodito

Sono di Coblenza, i Blackmail, quartetto attivo da più d'un decennio, dedito ad un indie-alternative rock di pregevolissima fattura, non distante dalle atmosfere dei primi Smashing Pumpkins sapientemente miscelate con la perfette melodie dei Beatles, con un cantante che si trova a metà strada tra un Brian Molko libero dalla sua (alla lunga) patetica intonazione ed un Billy Corgan meno egocentrico ed autocompiaciuto.

Il loro capolavoro, a parer mio, è questo Friend or Foe?, del 2003, in cui i quattro, guidati dai fratelli Ebelhäuser, raggiungono il proprio apice creativo, con un susseguirsi di brani intensi, altalenanti tra le malinconiche dolcezze di Airdrop e Fast Summer e le ruvide e possenti Evon (dove l'eco dei QOTSA riecheggia in tutta la sua fulgida e granitica potenza), Sunday Sister o la lunga e psichedelica cavalcata conclusiva Friend.

Lo scorso settembre me li sono goduti live a Winterthur in un concerto memorabile per intensità e solidità; sul palco i Blackmail confermano quanto di buono, anzi, di ottimo, confezionano su disco, laddove il ruvido suono della chitarra si fonde con l'abissale profondità degli attimi più quieti ed intimi...scopriteli, ne rimarrete piacevolmente estasiati.

Monday 4 June 2007

High Fidelity: la musica che si specchia nella vita

L'altro giorno ho riguardato, per la milionesima volta, credo, High Fidelity, splendido film di Stephen Frears tratto dall' omonimo romanzo di quel grandissimo autore che risponde al nome di Nick Hornby. E' uno dei miei film preferiti, per una moltitudine di motivi: innanzitutto, se le prime note che escono dalle casse sono quelle di You're gonna miss me, dei 13th Floor Elevators, la pellicola già si ritaglia uno spazio di primo piano nel mio cuore. L'intera storia ruota poi intorno alla musica e all'amore, visto dal punto di vista maschile, per cui non faccio fatica ad identificarmici, anzi; Rob, il personaggio principale, potrei essere io, o quasi. Adora la musica, vive per essa, fa(ceva) il dj e registra compilation per le ragazze che gli piacciono, si ubriaca malamente per le sue pene d'amore e si pente degli errori commessi, ma solo quando, ormai, è troppo tardi...

Poi c'è Jack Black, e Jack Black, per quanto in molti lo possano ritenere un idiota, è un idolo, sopratutto nei panni di Barry, intransigente e rissoso freak musicale da antologia. Anche in lui mi rivedo, almeno in parte.

Ma, sopratutto, High Fidelity è un'analisi perfetta della complessa ed incomprensibile (spesso, perlomeno) natura del rapporto uomo-donna, dei suoi malintesi, fraintendimenti, delle sue bugie o cose non dette, del dolore e della gioia che sa regalare, dell'odio e della rabbia che, a volte, ne scaturiscono. Come detto,mi ci identifico, forse mai come in questo frangente di vita...