Friday 12 December 2008

Dischi fondamentali di questo 2008: gli ultimi 3...e qualche grande escluso

Come anticipato qualche post fa, ecco gli ultimi tre dischi fondamentali di questo 2008; ad osservare la mia classifica da vicino, mi rendo contro che la quiete, la tranquillità, gli aspetti più acustici e meno elettrici la fanno da padrona in questa top ten annuale. Segno che sto invecchiando? Non credo proprio, e a testimoniarlo, in seguito, ci penseranno alcuni esclusi, ottimi dischi, ma non in grado di competere con questi 10 eccellenti lavori.
Partiamo con la nuova sensazione indie a stelle e strisce, ovvero i Bon Iver: con l'album For Emma, Forever Ago la band ha inciso un minuscolo angolo di paradiso, in cui si possono udire tanto gli echi dell'intramontabile Neil Young, sopratutto nella tonalità della voce di Justin Vernon, deus ex machina del gruppo, quanto le influenze di un soul vecchia scuola e dei compagni d'etichetta Okkervil River. Brani come Flume, Skinny Love, The Wolves e Re: Stacks sono remote perle intrise di sentimento ed emozione; da lacrime agli occhi, da brividi, da godersi in tutta la loro innocente bellezza.
Neil Halstead, invece, sforna un disco, in larga parte acustico, anche se, a volte, supportato da una band, che cresce, in maniera davvero incredibile, ascolto dopo ascolto; l'ex Mojave3 pare essere il legittimo erede del compianto Nick Drake, e con Oh! Mighty Engine sembra elaborare il suo personalissimo incrocio tra Pink Moon e Five Leaves Left, dando alle stampe un album che sembra seguire il rilassato ritmo delle onde sul bagnoasciuga, con canzoni che, ondeggiando, sfiorano i piedi per poi rituffarsi nell'Oceano.
A chiudere la top ten ci pensano i Boduf Songs, nome dietro il quale si cela il solo Matthew Sweet, ragazzo inglese poco più che ventenne titolare di un sound, anch'esso acustico, scarno ed essenziale, piuttosto cupo e tenebroso. Il suo disco, How Shadows Chase the Balance, è un angolo di oscurità, figlio illegittimo di un altro grande che non è più tra noi, ovvero Elliott Smith, incrociato, in qualche modo, con la fragilità di Conor Oberst; le canzoni sembrano farsi largo tra ombre minacciose, quasi sgorgassero direttamente da un tetro cimitero abbandonato, ma lasciano, indubbiamente, il segno. L'iniziale Mission Creep sembra una silente marcia funebre, Things Not to be Done on the Sabbath potrebbe appartenere a degli Iron & Wine in un brutto trip lisergico mentre A Spirit Harness incornicia alla perfezione le ultime, nevose notti d'inverno.

Passiamo ora ai grandi esclusi di quest'anno: partirei dall'ultima fatica dei Datsuns, compagine neozelandese che amo sin dagli esordi. Il loro Headstunts cancella l'amaro in bocca lasciato dal precedente Smoke & Mirrors, presentando un quartetto nuovamente in gran forma, oltre ad una buona manciata di canzoni vigorose e compatte: dall'iniziale Human Error passando per Your Bones fino alla tellurica Highschool Hoodlums, la band spinge decisamente sull'acceleratore, e chi se ne fotte che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole di Auckland, di buon rock n' roll il mondo avrà sempre bisogno!
A seguire citerei gli altrettanto devastanti Morlocks, band rinata dalle ceneri degli anni ottanta, con a capo quello che, a suo tempo, era considerato il degno erede di Iggy Pop; Leighton Koizumi, dopo un decennio abbondante di abbandono ai demoni dell'eroina torna con un disco che legittima appieno l'aura di culto venutasi a creare attorno al suo personaggio ed alla sua musica. Easy Listening for the Underachiever è un condensato di selvaggio e primitivo protopunk, dove lo spirito degli Stooges si miscela alla perfezione alla quintessenza dei primordiali Sonics.
Un altro grande escluso di questo 2008 è sicuramente Lookout Mountain, Lookout Sea, interessante e divertente lavoro dei Silver Jews, band capitanata dall'ex Pavement David Berman. L'influsso dell'ex band è senz'altro presente nelle 10 composizioni di questo album, un po' per la loro (celata) sghembezza, un po' per quell'attitudine lo-fi cui il gruppo di Stephen Malkmus ci aveva piacevolmente abituato negli anni; ma i suoni si spostano anche in direzioni più rurali, finanche country, talvolta folk, creando un suono intrigante, supportato dalla profonda voce di Berman. Le vette sono costituite dall'iniziale What is not But Coulf Be If, dalla bossanova ascendente di Aloysius, Bluegrass Drummer e dall'erede della mitizzata Range Life, la rilassata Suffering Jukebox.
Per concludere, non posso dimenticarmi dei deflagranti Lords of Altamont, il cui The Altamont Sin mantiene le promesse del precedente Lords, Have Mercy; ci troviamo nuovamente in territorio neo-garage, in bilico tra i Fuzztones ed i 13th Floor Elevators, e credo che basti questo a spiegare il contenuto di questa ennesima prova di forza, potenza e cazzeggio rock n' roll. Per spiriti ribelli, s'intende!

Tuesday 9 December 2008

Bodies of Water: A Certain Feeling...

Ci sono dischi che si tramutano in capolavoro immediato, o quasi, non appena le loro melodie incontrano i padiglioni auricolari dell'ascoltatore. Mi successe un anno fa con Neon Bible degli Arcade Fire e, sul finire dell'anno, con In Rainbows dei Radiohead. Mi è successo qualche mese fa con A Certain Feeling, degli incredibili Bodies of Water.
Come già anticipato nel post dedicato ai primi sette dischi fondamentali di questo 2008, il quartetto statunitense composto da due coppie mi ha letteralmente fulminato con le sue composizioni, eclettiche e spesso complesse, ma mai fini a loro stesse e, anzi, dedite alla ricerca di una melodiosità rara, di quella idea di forma canzone che va al di là delle (indubbie) capacità strumentali. Con questo disco i quattro hanno partorito un insieme di canzoni profonde, sofferte, che spesso ti si attaccano letteralmente addosso, e che, nel contempo, necessitano di molteplici ascolti per essere assorbite e comprese in tutta la loro essenza. I richiami vanno spesso indietro nel tempo, verso la metà dei settanta, sopratutto per quanto riguarda le devastanti strutture ritmiche e gli ipnotici riff di chitarra, guardando, però, sempre in avanti, con costruzioni melodiche di scuola indie; se dovessi trovare un metro di paragone, definirei i Bodies of Water come un perfetto incrocio tra i sopracitati Arcade Fire, si pensi alla densità degli intrecci vocali, e certi Motorpsycho affogati in un oceano di psichedelia, con accenni Black Mountain e Portishead, per quanto riguarda la sensualità della voce femminile e l'oscuro intimismo di alcuni pezzi.
Gold, Tan, Peach and Grey, il brano d'apertura, lento e sognante prima di tramutarsi in un'epica cavalcata, è debitore dei canadesi che alcuni anni fa scossero il mondo musicale con Funeral; Under the Pines, tenebrosa, sostenuta da un tappeto sonoro flagellante, varrebbe da sola l'acquisto del disco. Water Here, funerea marcia di rara bellezza, prima che uno stacco degno dei migliori Modest Mouse la trasformi in una strana sorta di brano dancefloor lisergico, è un piccolo, grandissimo capolavoro. Senza contare Only You, dai bristoliani echi, o Darling, Be Here, che ondeggia sulle cupe acque dei fiordi norvegesi, o ancora If I were a Bell, suite in cui albergano alla perfezione tutti i molteplici elementi che rendono questa compagine davvero grande e unica nel panorama undeground mondiale.
A Certain Feeling, e ne sono certo, dimorerà ancora a lungo nel mio lettore cd, tante sono le luci e le ombre che vi si celano e che, poco per volta, si fanno vive, facendolo risplendere di bagliori sempre nuovi ed inattesi. Capolavoro, dicevo...

Thursday 4 December 2008

Wattstax: la Woodstock nera

Era l'agosto del 1972 quando a Los Angeles sbarcarono i maggiori artisti della leggendaria (e, di lì a qualche anno, ahimè, fallita) scuderia Stax, casa discografica dedita alla musica nera in tutte le sue variegate declinazioni, nata negli anni cinquanta in quel di Memphis, Tennessee.

Erano gli anni in cui l'orgoglio nero andava, man mano, affermandosi come qualcosa di più che non un semplice fenomeno di massa; era, di fatto, la graduale ma ferma presa di coscienza del popolo afroamericano dei propri diritti e delle proprie libertà. L'estate dell'amore e l'intero movimento flower-power erano ormai sepolti, finanche dimenticati, nelle fitte nebbie del passato; l'età dell'innocenza era inevitabilmente giunta al temine, non foss'altro che per l'impressionante serie di delitti della famigerata Manson Family, che scosse profondamente la comunità hippie, la rassegnazione che la guerra nel lontano Vietnam non sarebbe giunta al termine tanto velocemente come s'era, invano, sperato nei magici sessanta e, non da ultimo, il triste fatto che molti adoratori dell'lsd erano rimasti sospesi nella rarefatta aria dei loro abusi se non, e non era certo questa un'eccezione, piombati nel sinistro inferno dell'eroina.

In questo clima di eccitazione mista alle delusioni per un passato che sarebbe potuto essere ma non fu, i proprietari della citata Stax, in collaborazione con il festival losangelino Watt, decisero di promuovere un'intera giornata, il 20 agosto, in favore della musica nera, tentando di ricreare la magica atmosfera di Woodstock in un contesto (ambientale, culturale, musicale e politico) del tutto diverso; seguendo le orme no-profit del leggendario festival hippie del 1969, i biglietti non avrebbero avuto un costo superiore a 1 dollaro, mentre altri 50000 biglietti sarebbero stati regalati alle classi nere più povere. Quella che si materializzò di fronte al palco nel primo pomeriggio di quella domenica fu una folla di 112000 persone, a stragrande maggioranza nera, in un clima di festosa e pacifica convivenza; di fatto, e a ripensarci oggi fa davvero sorridere, non un solo agente di polizia era presente allo stadio quel giorno, e non si verificò alcun incidente.

Lo show prevedeva un overture dedicata al Reverendo Jesse Jackson, cui seguivano sette ore pressochè ininterrotte di musica, perlopiù di altissimo, se non eccelso, livello. Dal soul corale, debitore del più antico gospel degli Staple Singers al ruvido e possente funk degli incredibili Bar Kays, forti del recente successo del singolo Son of Shaft, qui presente in una dilatatissima e ritmatissima versione che sfiora i dieci minuti e manda letteralmente in visibilio la folla. Dal blues urbano di Albert King, la cui Killing Floor, che fu di Howlin' Wolf prima e di Jimi Hendrix poi, ne mostra tutta la potenza alla sei corde, al vigoroso soul, fortemente debitore (e come non potrebbe?) di Otis Redding targato Eddie Floyd, qui presente con la celeberrima Knock on Wood, passando per la maestosa chiusura affidata all'immenso Isaac Hayes, che, con l'assassino incedere del wah wah di Theme from Shaft cattura il pubblico in un groviglio funkadelico da brividi freddi.

Un box di 3 cd è stato pubblicato nel 2007 e contiene una testimonianza preziosa e imprescindibile che cattura un istante musicale irripetibile, oltre a rappresentare una perfetta istantanea di un'epoca di cambiamenti e di profonde rivoluzioni nel tessuto sociale della numerosa comunità afroamericana. Un documento musicale di rara bellezza.

Monday 1 December 2008

Johnny Cash. L'uomo in nero.

Un tempo scrissi di avere pochi idoli musicali. Vero. Non amo idolatrare le persone, preferisco piuttosto cantare le lodi della loro musica. Ma alcuni idoli esistono anche per me, e uno di questi è senza dubbio Johnny Cash; non solo un musicista di grande talento, un compositore straordinario, un cantante dalla voce unica, indescrivibile, ma anche, e sopratutto, un esploratore, un giocoliere musicale, una personalità forte e coerente, un uomo che, con tutte le sue debolezze, fa sentire l'ascoltatore parte del piccolo universo che viene a crearsi non appena le note della sua musica si dispiegano nell'aria.
Amo entrambi i lati di Cash; quello spensierato, dal tocco ribelle, dei primi anni cinquanta, quando, in compagnìa del suo Tennesse Two, batteva i palchi di tutti gli Stati Uniti col suo tipico sound "boom chicka boom", spesso accompagnato in tour da un altrettanto imberbe Jerry Lee Lewis e da quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, e compagna di tutta una vita, June Carter. Questo è il Cash rappresentato nell'emozionante (ma non del tutto fedele) biopic Walk the Line, uscito alcuni anni fa in tutte le sale cinematografiche e divenuto un successo immediato; è il Johnny strafatto di anfetamine ed alcool, ondivago nel suo ricercare la fede dimenticata, fermo nel creare ed elaborare il suo personalissimo sound. Che, a differenza di quanto possa pensare la massa, non è riducibile al ben delineato stile country, ma ingloba tutta una serie di influenze ed impressioni, che variano, di volta in volta, dal rockabilly al blues, passando per il suo amatissimo gospel. E' il Cash che scrive brani indimenticabili quali Folsom Prison Blues, Cry Cry Cry e Get Rhythm, nonchè l'interprete dell'immortale Ring of Fire, scritta per lui da June; è, sopratutto, il Cash che s'imbarca in un'infinita tournée nei penitenziari statunitensi, per portare la sua musica, impregnata di omicidi e di amori perduti, ai detenuti, da sempre suoi grandissimi estimatori. Da queste esperienze nasceranno album storici quali Live at Folsom o Live at San Quentin, spesso considerati come i migliori di questo suo primo scorcio di carriera.
Dicevo, amo entrambi i lati di Cash; ma, mentre il primo mi riempie di emozioni esaltanti, di fragorosa vitalità, il secondo, quello della vecchiaia, delle oscure riflessioni interiori, non fa che pervadermi di una nostalgia senza nome, di una rassegnata amarezza. Dalla metà degli anni novanta, grazie all'incontro con Rick Rubin, un Cash rovinatissimo nel fisico (gli anni di abusi ne hanno segnato, profondamente e indelebilmente, la salute) ma vigoroso, come sempre, nello spirito, da il là ad una collaborazione che diverrà leggendaria; la serie denominata American Recordings, in cui il musicista si cimenta con materiale altrui oltre che con composizioni proprie, è la testimonianza di un artista che giunge, lentamente, al capolinea, ma che si porta appresso una dignità ed una profondità rarissime ed encomiabili. Le canzoni si fanno sempre più spesso acustiche, mettendo in risalto una voce che con l'età ha sì perso in estensione, ma ha raggiunto uno spessore e un'intensità da brivido, riuscendo a toccare emozioni e sentimenti in maniera tanto genuina da far venire le lacrime algi occhi. Hurt, One, Bird on a Wire, Thirteen, Rusty Cage, e la lista potrebbe essere infinita, tanto la qualità è alta, celebrano, a modo loro, il testamento musicale e spirituale di una della più grandi voci della storia della musica moderna.
Sì, Johnny Cash è uno dei miei pochi idoli musicali; è quello che non ha mollato, è quello che è crollato ma ha saputo risollevarsi mille e mille volte, è quello che ha fallito ma, alla fine, è uscito vincitore da qualsiasi lotta. E' Johnny Cash, l'uomo in nero.