Wednesday 19 September 2007

Portishead: oscuro erotismo


Tempo fa lessi che la miglior canzone per una serata di sesso era Sexual Healing, del compianto Marvin Gaye; senza voler nulla togliere al grande della musica soul targata Motown, io, sul podio, ci metterei Glory Box, della band inglese dei Portishead.
Orignari di Bristol, patria degli altrettanto cupi Massive Attack, i Portishead propongono una musica decisamente oscura, minimale, in cui regna una tensione erotica pari a pochi; è sopratutto la voce eterea e nel contempo tinta di tenebra della cantante Beth Gibbons a rendere i loro brani tanto avvolgenti quanto sfumati di un lascivo tocco di sesso.

Il loro debutto Dummy, uscito nel 1994, è un capolavoro, che il tempo, a distanza di 13 anni, non ha minimamente scalfito; a partire dall'ipnotica Mysterons, con quel ritmo trascinato che diverrà un marchio di fabbrica del gruppo, passando per Sour Times, struggente nella sua nudità, It's a Fire, dove affiora una parvenza di inaspettata dolcezza, fino ad arrivare alla già citata Glory Box, un blues urbano che sembra essersi fatto largo dalle nebbie dei secoli, l'intero album mantiene una tensione ed una carica espressiva invidiabili, talmente intense da renderne, almeno inizialmente, difficile l'ascolto per intero.

Musica notturna, direi, quando ti vorresti adagiare accanto a un fuoco, al lume di candela, assaporando un buon rosso ben invecchiato, incontrando, nella penombra, labbra calde che sappiano trasportarti lontano, in compagnia di queste melodie che solo le tenebre sanno far brillare in tutta la loro oscura lucentezza.

Al debutto, tre anni dopo, seguì un secondo disco, omonimo; la formula era la stessa dell'esordio, canzoni screpolate da ritmi primordiali e incorniciate in un suono sporco, dove la ruvida ritmica si miscelava perfettamente alle malsane melodie vocali di Gibbons. Un altro piccolo capolavoro, assai più coeso del predecessore, ma non per questo privo degli spunti fugaci di alcuni brani: perle quali All Mine e Only You ribadivano, se mai ce ne fosse stato bisogno, la carica sessuale di questa inimitabile formula musicale, dove un certo jazz dal gusto antico si fonda alla perfezione con l'urgenza della modernità, delineando paesaggi urbani, all'ombra di ciminiere che toccano le profondità del cielo.

La terza fatica degli inglesi è ancora sospesa, ma, per ora, mi basta avvolgermi in questa musica che mi fa venir voglia di autunno, con l'orizzonte velato di nebbia ed il camino scoppiettante, mentre le tenebre calano lasciando spazio al sinuoso silenzio della notte...

Tuesday 18 September 2007

Love Will Tear Us Apart


Dopo un'estate passata a far di tutto tranne che aggiornare il mio blog, eccomi tornato!
Dato che, non appena potrò, mi tatuerò il titolo di una delle canzoni più belle, cupe e significative che conosca sul braccio, vorrei condividerne il testo con voi.

Love will tear us apart Joy Division

When routine bites hard
And ambitions are slow
And resentment rides high
But emotions won't grow
And we're changing our ways
Taking different roads

Then love, love will tear us apart again
Love, love will tear us apart again

Why is the bedroom so cold?
You've turned away on your side
Is my timing that flawed?
Our respect runs so dry
Yet there's still this appeal that
We've kept through our lives

But love, love will tear us apart again
Love, love will tear us apart again

You cry out in your sleep
All my failings exposed
And there's a taste in my mouth
As desperation takes hold
Just that something so good
Just can't function no more

But love, love will tear us apart again
Love, love will tear us apart again

Nel 2003 il NME l'ha eletto miglior singolo di tutti i tempi...quello che suscita in me è dolore, disperazione e verità...una perla d'altri tempi.

Monday 25 June 2007

Lemonheads: grazie di esistere (di nuovo)

Dalle nostre parti, nel Vecchio Continente, non hanno mai goduto di una grandissima fama, se si esclude il tormentone Mrs Robinson, che risale a più di un decennio fa, quando, facendo loro lo splendido pezzo di Simon & Garfunkel, ebbero una risonanza più o meno mondiale.
Tralasciato quest'estemporaneo episodio, il gruppo capitanato da Evan Dando, compositore, cantante e chitarrista della band, sparì lentamente nel nulla, su entrambe le sponde dell'oceano, affogando, come spesso accade, di paripasso agli eccessi del proprio leader. E fu un vero peccato, poichè i Lemonheads, nati nella seconda metà degli anni '80 ed inizialmente dediti ad un hardcore melodico fortemente debitore degli Hüsker Dü più maturi, erano stati un ottimo gruppo, sopratutto quando avevano iniziato ad incanalare nella loro musica elementi di quella nascente scena indie che, di lì a poco, avrebbe portato alla ribalta, non solo nazionale, nomi quali Dinosaur Jr e Pavement.
Album quali Come On Feel e, sopratutto, It's A Shame About Ray sono dei veri gioiellini, strabordanti melodie, armonie ed una vivacità contagiose; canzoni apparentemente innocue come la titletrack di quest'ultimo, Rudderless, It's About Time o Style sono piccole gemme indie dalle pressochè perfette sfumature pop.
Purtroppo, come detto, i soliti eccessi da rockstar ebbero la meglio su questo piccolo e meraviglioso universo, intaccandone inevitabilmente qualsivoglia possibile lieto fine; il gruppo si congedò con un album abbastanza trascurabile e Dando si perse nelle fitte nebbie delle dipendenze. Il buon Evan fece ritorno sulle scene quasi dieci anni dopo con un album in solitaria decisamente degno di nota, in cui l'amore per il lato più acustico della sei corde si palesò in tutta la sua interezza. Ma, a conti fatti, anche a lui devono essere mancati, almeno come ragione sociale, i suoi Lemonheads.
Sul finire del 2006 esce così la nuova fatica della riformata band (di cui, ad onor del vero, l'unico superstite è il solo Dando); in sordina, senza un titolo, quasi a voler dire "Hey, in realtà non ho bisogno di grandi celebrazioni, perchè non me n'ero mai andato". Ed il disco soddisfa appieno le attese, calandosi a ritroso nelle ombre del tempo, quasi fosse stato registrato quando le teste di limone si cullavano ancora nella beatitudine e nella spensieratezza della gioventù. E noi fans con loro.

Sunday 24 June 2007

Dal deserto allo spazio profondo


Dopo settimane passate ad annacquarmi il cerebro con canzoni tra il melenso ed il patetico andante sto finalmente tornando alle mie origini, ovvero ai ruvidi suoni del rock più crudo e meno propenso a compromessi.
Dopo il celebrato ritorno dei sempre amatissimi White Stripes è il turno della nuova creatura musicale di Chris Goss, nome forse non conosciutissimo ma d'importanza a dir poco fondamentale per quello che è stato il rock a stelle e strisce degli ultimi 15 anni. Fu infatti lui a scoprire, agli inizi degli anni '90, un gruppo di scapestrati dedito ad un sound cupo e vibrante, memore del doom quanto dei primi Sabbath; questo gruppo erano i Kyuss. Dalle loro ceneri, come sappiamo, nasceranno in seguito i Queens of the Stone Age, i vari progetti delle Desert Sessions, gli Slow Burn, gli Unida, gli Hermano e un'altra mezza dozzina di bands di medio-corta durata.
Ma Goss era, ed è, oltre che profondo conoscitore ed amante della musica, anche un talentuoso musicista; con i suoi Masters of Reality ha realizzato dischi di ottima fattura ed almeno un capolavoro, che risponde al titolo di Sunrise of the Sufferbus, in cui è affiancato, alle pelli, nientemeno che da Ginger Baker, il leggendario ex-batterista dei Cream, prima, e dei Blind Faith, poi.
Accantonato momentaneamente il suo progetto principale, il signor Goss si unisce a Geordie White (il Twiggy Ramirez che si celava dietro al basso nei primi dischi di Marylin Manson ed, in seguito, degli A Perfect Circle) e Zach Hill, degli Hella, per dar vita a questi Goon Moon; il sound è vicinissimo a quanto siamo abituati a sentire nei dischi dei Masters, con l'elemento psichedelico che sembra miscelarsi quasi alla perfezione ai suggerimenti pop ed alle chitarre, spessissimo, imparentate coi Queens. Non a caso, tra gli ospiti presenti non poteva mancare Josh Homme, fedele compagno di viaggio di Goss sin dalla gioventù; il suo influsso, sopratutto alla sei corde, è senz'altro riscontrabile in pezzi tirati e trascinanti come My Machine, Feel Like This e Tip Toe.
L'amore sempre dichiarato di Goss per i Beatles si palesa poi nell'iniziale Apple Pie, dove i quattro baronetti di Liverpool sembrano incontrarsi con il sabba nero di Birmingham, ed in divagazioni quasi brit pop come Lay Down e Balloon?.
Con The Golden Ball c'è poi una suite di quasi dieci minuti in cui affiorano trent'anni e forse più di storia del rock, partendo dai Buffalo Springfield per planare coi primissimi Led Zeppelin.
Un bel disco, questo Licker's Last Leg, da consumare con la stessa passione con cui, sicuramente, è stato concepito e registrato...

Friday 22 June 2007

The White Stripes are back...

Sono uno dei gruppi rock più veri in circolazione, dediti alla musica come pochi altri, capaci di sfornare con un'impressionante regolarità album ottimi se non, addirittura, eccellenti.

Un duo perfetto, con un compositore, Jack White, in grado di scrivere brani che ti si appiccicano addosso come miele o che, in taluni casi, divengono veri e propri inni; basti pensare a Seven Nation Army, colonna sonora non ufficiale della nazionale italiana al mondiale di Germania dello scorso anno (personalmente lo trovo un mezzo peccato, dacchè la canzone, con uno dei riff più memorabili degli ultimi decenni, ai miei occhi, perlomeno, è totalmente sputtanata). Alla batteria siede Meg White, sua partner musicale (e non solo, per un certo lasso di tempo) fin dagli albori; certo, non è John Bonham nè Keith Moon, ma il suo dovere lo fa sempre, con precisione e potenza, nonchè con un groove che molti superbatteristi da conservatorio si sognano.

Dicevo, uno dei gruppi rock più veri, poichè portano avanti il loro discorso musicale da quasi un decennio, senza farsi contaminare da fattori esterni, mode passeggere o manie di grandezza; con i Raconteurs, poi, il signor White ha pure fondato una sua seconda creatura musicale degna di nota, accompagnato nell'impresa (riuscitissima, direi) da Brendan Benson e dalla sezione ritmica degli ottimi Greenhornes.

Ma torniamo ai White Stripes e alla loro ultima fatica, questo Icky Thump, da pochi giorni in circolazione; mi è stato recapitato solo oggi dallo zelante postino di paese e, a parte il singolo che da il nome al tutto (prima titletrack per il duo) e che già da un po' avevo avuto occasione di apprezzare, con quel suo irresistibile richiamo al dirigibile di piombo, già si lascia intravedere una struttura assai più rock rispetto al precedente (e coraggioso) Get Behind Me Satan, dominato in larga parte dal piano.

Qua la chitarra torna a fare il diavolo a quattro, e non si può proprio dire che non mi fosse mancata; White, oltre che ottimo compositore e cantante versatile, è anche un grandissimo chitarrista, privo delle seghe mentali dei virtuosi, focalizzato sull'essenza del brano, ed è questo che rende tanto magico il suo stile. I brani che solcano le onde di questo nuovo, piccolo oceano di sorprese e meraviglie si muovono tra il rock dei primi settanta, con i soliti Zeppelin in testa, ed il folk del decennio precedente, senza disdegnare più di un'occhiata al country e alla psichedelia.

Insomma, i soliti, per così dire, ingredienti per il duo di Detroit, che ha ancora la voglia e la capacità di sorprendere e deliziare l'ascoltatore; sono pochi, anzi, pochissimi, i dischi che comprerei a scatola chiusa. Con i White Stripes non mi è mai andata male, un perchè ci sarà, o no?

Tuesday 19 June 2007

Coldplay: i ricordi che ho dimenticato


Sono in un mood quantomeno malinconico, me ne rendo conto; il motivo è sempre il solito, ma preferisco tacerlo, in fondo il blog è pubblico, e non mi vorrei sputtanare in diretta. Comunque, tornando alla musica che ascolto in questo periodo, per completare il quadretto per cui ognuno di voi mi dovrebbe prendere a sberle, aggiungo con piacere, e con un tocco di puro autolesionismo, i Coldplay; premetto che è un gruppo che apprezzo davvero, nonostante la loro ultima fatica discografica non mi avesse convinto del tutto, e questo loro secondo lavoro, A Rush Of Blood To The Head, lo considero un ottimo album.
Già il debutto Parachutes lasciava intravedere notevoli potenzialità, trainato da brani intensi e delicati quali Yellow, Shiver e, sopratutto (almeno per me) Trouble, ballata dominata dal piano e dalla calda voce di Chris Martin; i quattro inglesini si ponevano come valida via di mezzo tra i primi Radiohead e quel nuovo brit pop che stava nascendo con l'avvento del nuovo millennio.
Il successo fu pressochè immediato, bissato dal seguito, questo album in cui si sussegue un successo dopo l'altro; Politik, In My Place, God Put A Smile Upon My Face, e mi fermo qui, perchè dovrei praticamente citare l'intera scaletta del disco per non fare torto ad alcun brano.
E' nel complesso che queste melodie tendono a bagnare gli occhi e a far tremare il cuore, facendo rinascere in me ricordi di un amore passato, che, inspiegabilmente, si mescolano alle indefinite emozioni che provo ora, notte e giorno. Una sorta di vortice spazio-temporale in cui confluiscono molteplici sentimenti che non mi so spiegare, ma che sembrano voler tracciare una linea ben definita nell'orizzonte infinito che mi si staglia dinnanzi...

Tuesday 12 June 2007

Sulla spiaggia con Neil

Neil Young è uno dei miei (pochi) idoli musicali. Quello che ha fatto lui in quel magico decennio, tra la fine dei sessanta e l'avvento degli ottanta, non può che esser oggetto di infinita ammirazione e gratitudine. Neil ci ha regalato una manciata (abbondante) di album che definire pietre miliari non è un'esagerazione, ma solo il giusto tributo ad una vena compositiva che pareva inesauribile.

E' nel decennio successivo che Mr Soul ha abbandonato la retta via, ma in questo era, ahimè, in buona compagnia (vero, signor Zimmerman?...)...sul finire di quegli oscuri e bui anni ha ritrovato il cammin perduto, ma è agli albori che vanno ricercati i suoi veri capolavori, sia in solitaria che in combutta con Crosby, Stills & Nash.

A parer mio l'apice della sua produzione di quegli indimenticabili anni è rappresentato da questo On The Beach, forse non stracolmo di hits, ma tanto coeso, denso, inscindibile da sembrare un macigno che ti si schianta in pieno volto.

E' il dolore (tanto per cambiare) a rendere On The Beach il capolavoro che è; erano periodi neri, nerissimi, quelli, per il nostro, e la musica che ne scaturiva non poteva che essere impregnata fino all'anima di quello spirito desolato e desolante.

Rassegnazione, pensieri sfuggenti, malinconici lamenti, ecco gli ingredienti di quest'album, di cui non serve citare canzone alcuna, tanto l'impasto sonoro che lo forma sembra non volersi disgregare, neppure (anzi, sopratutto) dopo il milionesimo ascolto.

Ricorda la scìa lasciata da un aereo, nel cielo tinto di rosa, quando il sole comincia a spegnersi per fare posto alla luna, melodie e note che si estinguono e rinascono all'orizzonte, laddove il giorno finisce, per riniziare dopo poche ore di tenebre...magico...

Monday 11 June 2007

Canzoni patetiche con cui sciogliersi in un brodo di giuggiole

Ebbene sì, sto perdendo colpi!
Nelle ultime settimane, causa un evento imprevisto e del tutto inusuale per me (almeno, pensavo fosse inusuale, ma mi sbagliavo) di cui preferirei evitare i dettagli, ho cominciato ad affondare nelle note delle canzoni più strappalacrime (o strappamutande, come direbbe qualcuno) che la mia giovane mente abbia mai conosciuto.

Ve ne sottopongo un elenco; forse un giorno me ne pentirò, ma, ora come ora, sono soggiogato dalle note dei brani a seguire. Buone risate.

Al primo posto, inattaccabile, metto A Whiter Shade Of Pale dei mitici Procol Harum; credo che più a fondo di così non si possa davvero andare!
A seguire direi Unchained Melody, dei Righteous Brothers; avete presente la scena di Ghost (arghhh!!) con Demi Moore che modella l'argilla? Ecco, oggi come oggi io mi sento quel pezzo d'argilla.
Al terzo posto piazzerrei Killing Me Softly di Roberta Flack, tanto per galleggiare impunemente su un mare di patetica malinconia....e già sto toccando il fondo.
Quarto posto a When A Man Loves A Woman di Percy Sledge; se siete diabetici, a questo punto, rischiate davvero un'overdose di zucchero.
Per chiudere questa dubbia (e raccapricciante) top five, scelgo Sweet Child O' Mine, dei Guns N' Roses; ecco, se mi vedete per strada potete anche prendermi a pugni, magari riuscite a destarmi da quest'abisso di mielose e melense canzoni. Io, per ora, ne sono schiavo, e credo di essere sull'orlo della follìa...

Wednesday 6 June 2007

Nine Inch Nails, ma dove siete finiti?

Una bella domanda, davvero! Insomma, il nuovo disco, Year Zero, è uscito da un po', preceduto dal singolo Survivalism; già quest'ultimo mi aveva lasciato perplesso, in un primo tempo, ed amareggiato, in seguito. Una schifezza orripilante, se devo essere sincero; pop elettronico prevedibile, scontato, privo di qualsivoglia mordente, del tutto svuotato da quel mood malsano ed oscuro che accompagnava, in genere, le uscite discografiche del signor Reznor.

Beh, diciamo che alcune avvisaglie c'erano già state con l'ultimo album; alla lunga l'avevo trovato un disco noioso, a parte qualche buon episodio qua e là, sopratutto se paragonato al suo illustre predecessore, quel The Fragile che era stato un po' la summa del lavoro dei Nine Inch Nails.
Ma, mi dicevo, un passo falso (in questo caso un mezzo passo falso, ad esser onesti) può capitare a tutti, invece...suonerà cinico e stupido, ma credo, anzi, sono certo, che la scarsa ispirazione di Trent Reznor coincida con la sua recente disintossicazione da alcool e droghe varie. Insomma, Mr Self Destruct ha messo la testa a posto e, per quanto possa essere felice per lui come persona, non lo sono altrettanto per quanto riguarda lui come artista.

Dischi come The Downard Spiral, Broken e il già citato The Fragile nascevano dalle tenebre oscure della sua mente malsana; era una musica affogata nell'eccesso, nel nichilismo, nell'odio e nel dolore, e proprio per questo risultava così valida, così vera, così unica.

La realtà, per quanto possa far male, è che l'ispirazione, spesso, tende a svanire, e con essa la buona musica e le emozioni che era in grado di suscitare. E, putroppo, nemmeno Trent Reznor fa eccezione...

Tuesday 5 June 2007

Blackmail, un segreto fin troppo ben custodito

Sono di Coblenza, i Blackmail, quartetto attivo da più d'un decennio, dedito ad un indie-alternative rock di pregevolissima fattura, non distante dalle atmosfere dei primi Smashing Pumpkins sapientemente miscelate con la perfette melodie dei Beatles, con un cantante che si trova a metà strada tra un Brian Molko libero dalla sua (alla lunga) patetica intonazione ed un Billy Corgan meno egocentrico ed autocompiaciuto.

Il loro capolavoro, a parer mio, è questo Friend or Foe?, del 2003, in cui i quattro, guidati dai fratelli Ebelhäuser, raggiungono il proprio apice creativo, con un susseguirsi di brani intensi, altalenanti tra le malinconiche dolcezze di Airdrop e Fast Summer e le ruvide e possenti Evon (dove l'eco dei QOTSA riecheggia in tutta la sua fulgida e granitica potenza), Sunday Sister o la lunga e psichedelica cavalcata conclusiva Friend.

Lo scorso settembre me li sono goduti live a Winterthur in un concerto memorabile per intensità e solidità; sul palco i Blackmail confermano quanto di buono, anzi, di ottimo, confezionano su disco, laddove il ruvido suono della chitarra si fonde con l'abissale profondità degli attimi più quieti ed intimi...scopriteli, ne rimarrete piacevolmente estasiati.

Monday 4 June 2007

High Fidelity: la musica che si specchia nella vita

L'altro giorno ho riguardato, per la milionesima volta, credo, High Fidelity, splendido film di Stephen Frears tratto dall' omonimo romanzo di quel grandissimo autore che risponde al nome di Nick Hornby. E' uno dei miei film preferiti, per una moltitudine di motivi: innanzitutto, se le prime note che escono dalle casse sono quelle di You're gonna miss me, dei 13th Floor Elevators, la pellicola già si ritaglia uno spazio di primo piano nel mio cuore. L'intera storia ruota poi intorno alla musica e all'amore, visto dal punto di vista maschile, per cui non faccio fatica ad identificarmici, anzi; Rob, il personaggio principale, potrei essere io, o quasi. Adora la musica, vive per essa, fa(ceva) il dj e registra compilation per le ragazze che gli piacciono, si ubriaca malamente per le sue pene d'amore e si pente degli errori commessi, ma solo quando, ormai, è troppo tardi...

Poi c'è Jack Black, e Jack Black, per quanto in molti lo possano ritenere un idiota, è un idolo, sopratutto nei panni di Barry, intransigente e rissoso freak musicale da antologia. Anche in lui mi rivedo, almeno in parte.

Ma, sopratutto, High Fidelity è un'analisi perfetta della complessa ed incomprensibile (spesso, perlomeno) natura del rapporto uomo-donna, dei suoi malintesi, fraintendimenti, delle sue bugie o cose non dette, del dolore e della gioia che sa regalare, dell'odio e della rabbia che, a volte, ne scaturiscono. Come detto,mi ci identifico, forse mai come in questo frangente di vita...

Tuesday 22 May 2007

Starsailor, quando la malinconia brilla nella notte



Riscoprire i dischi è un evento unico ed irripetibile, ma riscoprire capolavori è dificilmente descrivibile.

Ritrovarsi con qualcosa che si era amato ma che, chissà per quale ragione, era stato messo da parte, nel cassetto dei ricordi perduti, ha un sapore speciale, quasi di rivincita.

Così mi sono sentito, la scorsa notte, quando, come di conseueto, per calarmi nell'oscurità, ho scelto un disco che mi accompagnasse; il mio lettore era secoli che non assaggiava Love is Here, degli Starsailor, e posso immaginarmi quanto gli fosse mancato, in questo infinito lasso di tempo.

Brani come l'iniziale Tie Up My Hands, la successiva Poor Misguided Fool o la seguente Alcoholic sono lacrime amare versate in un pozzo nero, in cui non risplende nè la luce del sole, nè il bagliore lontano della luna...diamanti dannati, figli di Tim Buckley quanto dei primigenei Radiohead, dolci lamenti che si perdono nel nulla della notte...

She Just Wept, che come ghiaccio scorre sulla pelle e la scuote nel fremito del freddo, pare essere una remota oasi di pace per i sensi, ma svanisce nel suo incantesimo agrodolce...Love Is Here, con la sua cadenza elegante, col dolore che si porta appresso, come un bagaglio di cui si vorrebbe liberare...

Musica che fa male, questa, ma che porta con sè un senso di sollievo e pace che riempie ogni ascolto, come un prato che fiorisce nel gelo, come l'oscurità che si tinge dei rosei sprazzi dell'alba... Da assaggiare in queste nottate estive, che sembrano non avere nè inizio, nè fine...

Monday 21 May 2007

Le Zucche stanno marcendo...o no?


E' ormai questione di pochi giorni, l'uscita del nuovo album (il sesto, se non si conta Machina 2, uscito solo in rete) dei riformati Smashing Pumpkins, anche se riformati è un parolone, dacchè della formazione originale restano il deus ex machina Corgan e l'ex tossico, nonchè batterista eccezionale, Chamberlin.


Premetto di esser (stato) un grande fan della band di Chicago, fin dall'incredibile debutto Gish, dal suo eccelso seguito Siamese Dream fino al mastodontico Mellon Collie and the Infinite Sadness.

Musica capace di trasportare pensieri ed emozioni in luoghi lontani, sognanti, fantastici... Ho avuto la fortuna di vederli dal vivo a Sursee nel lontano 1997, quand'erano all'apice della loro forza creativa.


Questa forza creativa si dissolse del tutto nel semi-elettronico Adore, che di adorabile, per il sottoscritto, aveva ben poco; dov'erano finite le chitarre psichedeliche e ruggenti, dov'era rimasto il galoppare selvaggio della batteria (Chamberlin era da poco stato licenziato per i suoi evidenti problemi di droga) e, sopratutto, dove diavolo erano le canzoni? Passarono pochi anni e Machina/The machines of God siglò la fine delle zucche, nonostante, se paragonato al predecessore, l'album tentasse, perlomeno, di riacciuffare i fasti del passato, senza però riuscirvici.


Di acqua, sotto i ponti, ne è passata parecchia da allora; prima Corgan ci propina il progetto Zwan, lagnoso quanto basta per fermarsi ad un solo (per nostra somma fortuna) album, poi è il turno del suo album da solista, di cui preferirei non ricordarmi.

Gli manca la sua band, si lamentò un annetto fa, e da qui la reunion, col solo Chamberlin disposto a seguirlo nuovamente nel progetto delle sue zucche. Il primo assaggio di Zeitgeist, questo il titolo dell'opera, è il singolo Tarantula; le chitarre sono tornate, la batteria anche, ma l'ispirazione...beh, quella è svanita, tra le gloriose pagine del passato. Aspettando il disco nella sua interezza, preferisco andare a riascoltarmi Cherub Rock o Bullet with Butterfly Wings per provare emozioni vere, perchè la musica, in un certo senso, è come l'amore: la zuppa riscaldata è spesso indigesta.

Tuesday 15 May 2007

The Coral: il Merseybeat della nostra generazione

Già col loro primo, omonimo, album, mi avevano trascinato a forza nel loro universo musicale; oscillanti tra il merseybeat tanto caro alla natìa Liverpool e le deviazioni psichedeliche della California dei sessanta, i sei proponevano una miscela tanto coinvolgente quanto annebbiata nei fumi del passato, e non solo...

Col secondo lavoro Magic & Medicine i Coral mettevano a fuoco le loro potenzialità in una successione di brani incredibili, Pass It On su tutti. Folk sposato al country miscelato coi Doors imparentati con il beat di quarant'anni fa, insomma, per qualsiasi nostalgico ( e non) una vera manna dal cielo.

Nightfreak & The Sons of Becker, mini album uscito pochissimi mesi dopo il sopracitato Magic & Medicine, suscitava un vago senso di irritazione; sembrava il frutto di un lavoro mai portato realmente a termine, lasciato sospeso a mezz'aria. Un mezzo passo falso.

Il sentiero, i sei ragazzi guidati da James Skelly, cantante di rara versatilità, lo ritrovano subito; The Invisible Invasion, datato 2005, riprende il discorso del secondo album, smussandone magari gli angoli più acidi. Trainato dall'ottimo singolo In The Morning il disco accompagna l'estate di quell'anno, confermando i Coral come una delle migliori bands inglesi del momento.

A breve, ancora non si sa con esattezza, dovrebbe vedere la luce la nuova fatica dei sei; nell'attesa mi lascio trascinare lontano da perle quali Dreaming of You, Bill McCai e Arabian Sand...

Monday 14 May 2007

Dieci canzoni per una primavera



Dieci canzoni per questa primavera 2007, tanto simile all'estate da non sembrare nemmeno lontanamente la mezzastagione che fa sì sbocciare fiori, ma che a Pasqua, o giù di lì, ci riserva un'inaspettata nevicata.

Dieci brani che mi accompagnano da qualche tempo, dal mattino alla notte fonda...in ordine sparso, così come le emozioni che mi scatenano dentro.

Low: Silver Rider (vedi post precedente)

Cold War Kids: Hospital Beds (una sensazione indie con una specie di Jack White alla voce)

Murder By Death: Brother ( intenso, malinconico, desertico)

Arcade Fire: Keep the Car running ( i R.e.m., se oggi non avessero perso tutto lo smalto)

Grinderman: No Pussy Blues ( Nick Cave è tornato ad un blues marcio e decadente, carico di sesso)

Radiohead: How to disappear completely ( una splendida riscoperta, musica senza confini)

Mando Diao: Welcome Home, Luc Robitaille ( gli svedesi, il loro miglior album, uno dei loro migliori pezzi)

Langhorne Slim: Checking Out ( indie country folk imbastardito, dolcissimo e deviante)

Tindersticks: Rented Rooms ( ha più di dieci anni, ma potrebbe averne cento. Oscura, intima, erotica)

Tv On The Radio: Blues From Down Here ( perla dark wave, da scuotere l'anima)

Eccole, le mie compagne di viaggio, in queste giornate velate di caldo e di pioggie... a presto...

Monday 7 May 2007

Low: un soffio sull'anima

Un disco incredibile, questo The Great Destroyer dei Low.
Quando un anno fa lo comprai, con imbarazzante ritardo, dato che l'album risale al 2004, non riuscii a scorgerne immediatamente la complessa profondità, le trame sonore che sembrano perdersi all'orizzonte, su distese infinite che i miei occhi faticano a ricordare...

Nell'ultimo mese The Great Destroyer ha preso progressivamente possesso del mio lettore, e le sue incantevoli composizioni hanno cominciato a radicarsi nella pelle del mio cuore, sulla superficie della mia anima...brani come Monkey, ossessiva nenia che pare essere un antico e funereo canto d'addio, Silver Rider, la cui tristezza pare svanire nella sua sfuggente bellezza, On the Edge of, eterea come la brezza e pesante come un macigno, dolce e amara nel contempo, When I go Deaf, sussurrata, acustica, che prima d'esplodere ricorda l'aria di campagna allo sbocciare della primavera, sono solo alcuni dei pezzi di questo meraviglioso puzzle musicale, canzoni che si rincorrono nella mia testa e mi battono nel petto, come i semi di un amore svanito nel nulla della notte...

Da consumare e da amare, incondizionatamente...

Friday 27 April 2007

Le Regine preistoriche stanno tornando


Tra un mese e poco più uscirà il quinto capitolo della saga discografica dei Queens of the Stone Age; Era Vulgaris, questo il titolo dell'album, sarà nei negozi sul finire di giugno, e non c'è occasione migliore di questa per fare un salto a ritroso nel tempo, per arrivare laddove tutto cominciò.
Correva l'anno 1998, i Kyuss, ensemble che ridefinì i confini del hard rock e dintorni dando avvio al movimento del cosìdetto stoner, erano ormai storia di ieri. Dalle loro ceneri il cantante (e che cantante!) John Garcia diede vita dapprima agli Slo-Burn, seguiti dagli Unida e, in tempi più o meno recenti, dagli Hermano, creature musicali abbastanza vicine al suono della band madre, già solo per l'inconfondibile stile vocale del frontman. Sull'altro fronte, il batterista Alfredo Hernandez e, sopratutto, il chitarrista Josh Homme intitolarono la loro nuova ragione sociale Queens of the Stoen Age; l'album omonimo, uscito quello stesso anno, lasciava ben sperare. Homme, passato anche al ruolo di cantante, forse con minor carisma rispetto a Garcia ma comunque efficacie, è da subito il deus ex machina del tutto, e sarà l'unico della line up iniziale a resistere fino ad oggi; i Queens, proprio nelle parole del loro leader, vanno visti come una comunità musicale apertissima a interventi esterni, e questo si paleserà in maniera assai evidente nelle successive prove su disco.
Parlando del debutto, accolto con un certo entusiasmo da stampa e fans di vecchia data, si può dire che è un condensato di riff rubati agli anni settanta miscelati al sound desertico che aveva fatto dei defunti Kyuss una vera e propria leggenda, con gli angoli più estremi comunque parecchio smussati, il tutto accompagnato da una voce che sembra essersi trascinata lì dopo settimane di totale dedizione ad ogni sorta di droga.
Che l'influsso di stupefacenti faccia parte della musica delle Regine è innegabile, sopratutto di fronte alla seconda prova discografica dei nostri; R, questo il titolo dell'album, parte col micidiale assalto di Feel Good Hit of the Summer, il cui testo si limita alle parole "nicotine, valium, vacodine, marjuana, extasy & alcohol" con un bel "co-co-co-cocaine!" come ritornello. Anche l'eccellente e psichedelica Better Living Through Chemistry conferma le tendenze autodistruttive del gruppo capitanato da Homme, gruppo che comincia ad allargarsi e ad ospitare nomi eccellenti; a parte il ritorno del figliol prodigo Nick Oliveri, andatosene dai Kyuss ben prima dello split, ritorno invero importante, dacchè sarà lui l'alter ego folle innamorato di hard-core (e di massicce dosi di cocaina, pare) di Homme, vanno registrati ospiti come Rob Halford, Barrett Martin e, sopratutto, Mark Lanegan, che da qua in avanti navigherà spesso sulla nave dei Queens.
Alla produzione torna quella vecchia volpe di Chris Goss, colui che scoprì i Kyuss quasi un decennio prima, colui che conferì loro quell'inconfondibie sound e che lo stesso fece con la creatura in questione, senza dimenticare la sua band, gli incredibili Masters of Reality.
R fu la vera svolta per le Regine, un po' perchè supportati da Interscope per la distribuzione, un po' perchè il suono del gruppo cominciava a farsi davvero inconfondibile, un po' perchè Homme e compagni stavano scoprendo, a modo loro, ovviamente, il proprio lato pop; testimonianza sono brani come l'accattivante The Lost Art of Keeping a Secret e Auto Pilot, cantata ( e non urlata a squarciagola, come suo solito) da Oliveri.
La consacrazione come una delle migiori e più fresche realtà del rock di inizio millenio arrivò nel 2002, con quel Songs for the Deaf che è già da considerarsi una pietra miliare nella storia della musica. L'ospite, con la L maiuscola, a questo giro di boa è nientemeno che Dave Grohl che, accantonati momentanemente i suoi Foo Fighters, torna dietro le pelli a fare ciò che sa far meglio: pestare come un ossesso con quella sua precisione e delicatezza che, in più di un'occasione, fa tornare alla memoria lo stile unico ed inconfondibile di un certo John Bonham. Il risultato, con Lanegan sempre più presente (e sempre più spettrale), è stupefacente; i brani, tenuti insieme da un fil rouge rappresentato da una fantomatica radio, tengono alto, anzi, altissimo il ritmo, fin dall'iniziale Millionaire, dalla successiva e celeberrima No One Knows, dall'attacco secco di First it Giveth, dall'apocalittica The Sky is Falling, dalla malefica Hanging Tree, dalla melodica Go with the Flow e dall'incredibile mini opera che da il titolo al tutto. Un capolavoro senza tempo, questo Songs for the Deaf, e non aggiungo altro, perchè il solo alscoltarlo può davvero dare il senso della sua grandezza.
Cosa succede quando si raggiungono le vette più alte, anzi, la più alta di tutte? Se non si può più salire si cerca di restare lassù, a respirare la dolce aria dei trionfi, ma non sempre ci si riesce, e allora si rischia di cadere un paio di gradini più in basso. E' quel che è successo col quarto album dei Queens, quel Lullabies to Paralyze che, pur restando un buon disco con ottimi episodi (Medication, In My Head e Little Sister su tutti) risente del pesante paragone col recente passato e, anche se Homme non lo ammetterà mai, della dipartita di Nick Oliveri, causata dall'effervescenza (chiamiamola così) del suo carattere. Nulla di grave, ci mancherebbe, ma la sensazione è che la vena creativa del leader e dei suoi compagni stia andando esaurendosi; speriamo vivamente di no, perchè i Queens of the Stone Age sono uno dei pochi gruppi rock odierni in costante e continua ricerca, e sarebbe un peccato se smettessero proprio ora di stupirci.
Aspettando la loro quinta fatica, non mi resta che immergermi nei precedenti lavori delle Regine preistoriche, godendomi il suono del loro deserto, là, nei pressi di Joshua Tree, dove tutto cominciò...

Thursday 26 April 2007

The Black Keys: il sapore del blues e del garage

Ho scoperto questo eccezionale duo circa tre anni fa, grazie alle parole d'elogio espresse da un certo Robert Plant (insomma, non proprio l'ultimo arrivato in fatto di musica, blues in particolare); mi ci sono avvicinato con l'ottimo Thickfreakness, del 2003, pubblicato su Fatpossum, che ha poi sfornato l'incredibile Rubber Factory solo un anno dopo e, per chiudere il contratto, i due hanno inciso sei brani del compianto Junior Kimbrough tributandogli l'onore che merita (e che spesso viene dimenticato), nell'ep Chulahoma, faccenda di un annetto fa.


Magic Potion è il loro ultimo lavoro in ordine di tempo; uscito nell'estate 2006 ha accompagnato, col suo vibe blueseggiante sporcato del garage rock più primordiale, le mie giornate d'agosto. Il suono del duo (Dan Auerbach: chitarra e voce, Patrick Carney: batteria) si è fatto più denso, coeso, non togliendo però nulla alla freschezza selvaggia di composizioni come Your Touch, Just a Little Heat, Strange Desire e l'incredibile Modern Times.


Con la ballata You are the One i Black Keys sembrano addirittura voler omaggiare il signor Hendrix, tanto il giro di Auerbach sembra essersi plasmato sulle note dell'immortale Little Wing del Maestro.


Più vicini agli anni settanta che non alle sfuriate soniche del decennio precedente, i due hanno sfornato un (ennesimo) capolavoro, che, seppur non aggiungendo nulla di nuovo al panorama rock odierno, lo delizia con (pochi) minuti di musica decisamente eccitanti.

Saturday 7 April 2007

Dal Krautrock al Krautpunk


Il loro precedente Smack Smash aveva riscosso, almeno in Germania, consensi unanimi; trainato da singoli eccellenti come Hand in Hand ed Hello Joe (dedicata a Joe Strummer), l'album aveva fatto fare al quintetto d'oltralpe un deciso salto di qualità.
Tre anni dopo i Beatsteaks tornano con questo Limbo Messiah e proseguono, grossomodo, sulla falsariga del predecessore: un punk infetto di pop (ma di classe, non parliamo di Sum 41 o Blink 182), debitore, tanto per restare in tema, dei primi Clash ma anche di certa new wave anni ottanta.
Il tempo dirà se Limbo Messiah reggerà il paragone con Smack Smash, per ora lasciamoci cullare, energeticamente, s'intende, da brani come l'iniziale As I Please, dal singolo Jane Became Insane o dalle finezze (lievemente) contaminate di elettronica di Cut Off the Top.
Una piacevole conferma... il 29 maggio saranno di scena al Volkshaus di Zurigo, consiglio vivamente di esserci.

Friday 6 April 2007

Okkervil River: una fiaba fatta musica

Gli Okkervil River sono una delle realtà musicali piu' interessanti degli ultimi anni, ed anche una delle meglio nascoste agli occhi del grande pubblico; forse è questo status underground a conservarne il fascino misterioso, fascino che solo le indie bands meno esposte conoscono e, sopratutto, a preservarne la musica, mantenendola, di fatto, fresca, intensa, sincera.

Ho avuto modo di scoprirli grazie alle letture del Mucchio, rivista a cui saro' sempre grato per tutti quegli straordinari incontri musicali che ogni mese mi permette di fare; il mio primo approcio al mondo di Will Sheff (il deus ex machina del tutto, dalle musiche alle incredibili copertine) e soci l'ho vissuto sulle note dell'ep Black Sheep Boy Appendix, uscito a fine 2005 come ideale compendio all'album Black Sheep Boy. Quelle sette tracce mi stregarono a tal punto che, di lì a poco, mi portai a casa anche il suo predecessore ed altri due album della band, Don't Fall in Love with Everyone you see e Down the River of Golden Dreams.

Che dire della musica? Lo definirei, ma facendolo limiterei di molto il potenziale espressivo del gruppo, come una sorta d'incontro tra il folk di stampo tipicamente americano, un country venato di alternativo, la sghembezza dell'indie rock e, non da ultimo, una sottilissima vena dark, accentuata, direi, nelle ultime prove.

Brani come No Key, No Plan e Another Radio Song, da Appendix, sono incredibili esempi di altrettanto incredibile ispirazione; per non parlare di Black o For Real, contenute in Black Sheep Boy, o della dolcissima e malinconica Seas Too Far To Reach, tratta da Down the River of Golden Dreams. Ma sono gli album nel loro insieme a rendere grandi, anzi, immense, queste piccole composizioni sonore che crescono, s'ingigantiscono, ascolto dopo ascolto.

Dal vivo gli Okkervil River sono un'esperienza unica, tanto l'alchimia tra gruppo, e Sheff in particolare, dotato di una voce e di un carisma veri, e pubblico é intensa.
Come dico sempre: provare per credere, controindicazioni non ve ne sono affatto.

Tuesday 3 April 2007

A-ha Shake Heartbreak: sono tornati i parenti di Leon


Ne é passato di tempo dal mio ultimo post. In effetti, senza piu' internet a casa era assai difficile tenere aggiornato il blog; vabbé, spero di non assentarmi piu' tanto a lungo.


Per inaugurare la primavera ho pensato di celebrare il ritorno dei Kings Of Leon, un gruppo i cui primi due dischi mi avevano molto colpito e coinvolto, nonostante il fatto che di nuovo, sotto il sole, non ci fosse molto.

Se su Youth & Young Manhood i tre fratelli piu' cugino sembravano una sorta di versione punk dei Creedence Clearwater Revival, sul successivo Aha Shake Heartbreak il sound cominciava a farsi piu' personale, influenzato da una certa vena metropolitana cara agli Strokes, sempre e comunque dominato dall'inconfondibile voce di Caleb Followill.


Brani come Holy Roller Novocaine e California Waiting, dal primo lavoro, o Bucket e Taper Jean Girl dal secondo hanno il sapore dei classici, almeno per il sottoscritto.

Il 30 marzo è uscito, finalmente, direi, dato che l'attesa durava dal 2004, il terzo album del quartetto, Because of the Times; ammetto di non averne avuto che un rapido assaggio, in attesa che il postino mi consegni l'agognato pacchetto, ma l'impressione è che i Kings stiano completando una maturazione che, nel prossimo futuro, potrebbe regalarci tante soddisfazioni musicali. Incrociamo le dita...

Thursday 1 February 2007

Iron and Wine: agrodolci melodie


Ritengo una specie di eresia il fatto che questa incredibile creatura musicale ancora appartenga ad un underground che le sta, in tutta franchezza, assai stretto.
Nati nel South Carolina, creatura di quel Sam Beam che fu e sarà la mente del gruppo, toccano, con l'EP Woman King, un apice con cui sarà difficile misurarsi negli anni a venire.
Meraviglie sonore quali Jezebel, istanti d'infinita dolcezza regalati al nulla, Gray Soldiers, blues rurale sposato al tribale ritmo delle prime tribù, Freedom Hangs Like Heaven, country imbastardito dalla psichedelia e dalla struggente malinconia folk, e Evening on the Ground, tela di note ricamata su un silenzio struggente e rumoroso, testimoniano di un gruppo in florida ispirazione e in assoluta ricerca della musica.
Un toccasana per anima e cuore...davvero!

Tuesday 23 January 2007

Booker T. and Stax Records

Qual è il miglior strumentale di sempre, nella lunga storia di rock e affini?
Si potrebbe dibattere per ore ed ore su questo spinoso quesito; personalmente, però, non avrei alcuna esitazione nel rispondere che Green Onions, di Booker T and The Mg's vince, anzi, stravince la palma come miglior strumentale dell'ultimo mezzo secolo (abbondante) di musica.
Correva l'anno 1962, per la precisione era il mese d'agosto, e la giovane etichetta Stax Records, principale antagonista dell'altrettanto mitica Motown, dedita a sonorità più pop (ma non per questo meno incisive e vibranti), metteva in circolazione il singolo di un giovane fenomeno delle tastiere, Booker T, accompagnato dalla sua incredibile band, gli Mg's, appunto. Questo nonostante alcuni dirigenti della casa discografica di Memphis non fossero affatto convinti delle potenzialità del brano; quanto si sbagliavano! Col suo attacco di organetto e l'incedere di una chitarra ruvida e blueseggiante e di una batteria secca e precisa nasceva un brano perfetto, trainante, un ritmo cui nemmeno un sordo avrebbe potuto resistere.
Ma nella sua incredibile scuderia di talenti (basti ricordare Otis Redding e Sam & Dave per fugare qualsivoglia dubbio) la Stax contava altri talentuosi gruppi strumentali; in primis gli incredibili Mar-Keys, autori di un altro classico istantaneo come fu Last Night (nonchè di un'altra dozzina di perle più o meno sconosciute), i Triumphs, la cui Burnt Biscuits fa gelare le ossa dai brividi, i Cobras, a dire il vero solo in parte dediti a strumentali, come pure gli eccellenti Four Shells di Hot Dog.
Il sound di Memphis non appartiene dunque unicamente ad Elvis e Booker T ed i suoi compagni d'etichetta ce lo dimostrano appieno. E, a proposito, per il sottoscritto nella virtuale top five degli strumentali di sempre non può certo mancare Moby Dick dei Led Zeppelin e almeno un pezzo surf, ma queste sono altre storie...

A seguire una versione live di Green Onions. Il volume è terribilmente basso, ma il fascino della canzone resta intatto.
http://www.youtube.com/watch?v=3Uv-18oG9AE

Indie paralleli


Tanto per rimanere in tema indie music...
Nell'attesa degli Shins ho disperatamente cercato di colmarne il vuoto discografico affidandomi ai più disparati gruppi dediti a sonorità più o meno simili.

I primi furono i Fruit Bats, il cui Spelled in Bones accompagnò musicalmente il mio autunno 2005; i richiami agli amati Shins si sprecano sul disco di questo duo, ma ciò non toglie nulla alla magia di brani come Born in the Seventies e Legs of Bees.

Nella primavera dello scorso anno mi imbattei poi nei Dios Malos , il cui omonimo debutto mi entusiasmò relativamente; lo definirei come una sorta di incontro tra Beck e gli irrinunciabili Shins, con alcune piacevoli sorprese come la dolce Say Anything o la struggente My Broken Bones (quest'ultima decisamente vicina agli Okkervil River meno acustici), ma nel complesso mi pare un disco eccessivamente prolisso e, in taluni punti, persino autocompiaciuto.

Gli ultimi vice-Shins, in ordine di tempo, hanno uno dei nomi più esilaranti degli ultimi anni: Someone Still Loves You Boris Yeltsin, il cui debutto Broom miscela alla perfezione i soliti noti con una certa malinconia fortemente debitrice del compianto Elliott Smith. Una mezzora di tranquillità e sospiri, intensa ma non stressante, come solo il buon indie sa essere.

Di seguito, uno dei pezzi migliori degli Someone Still Loves You Boris Yeltsin, l'agrodolce Oregon Girl.

http://www.youtube.com/watch?v=7QkNDGn1VL8

The Shins: Wincing the night away


Dopo un'estenuante attesa durata quattro anni, ecco che mi ritrovo tra le mani il nuovo lavoro degli indie-rockers The Shins.
Confesso d'aver amato il debutto Oh, Inverted World, trascinato da quel gioiellino che risponde al nome di New Slang (ricordate le sue note accompagnare l'ottimo film Garden State?), e d'aver praticamente adorato il seguente Chutes Too Narrow, forte di perle come So Says I, Kissing The Lipless e Pink Bullets. Da allora, come detto, sono trascorsi quattro anni; questo nuovo album non delude le aspettative, ma, a conti fatti, è di qualche gradino inferiore al suo diretto predecessore. Il brano d'apertura Sleeping Lessons e Phantom Limb, primo singolo, sono delicate composizioni degne dei migliori Shins, ma, alla lunga, il disco sembra perdere parte del suo mordente. Voglio tuttavia lasciare tempo al tempo, poichè ho la netta impressione che queste siano canzoni che crescono ascolto dopo ascolto, fino a radicarsi nelle oscure profondità cerebrali senza più abbandonarle. Intanto mi immergo in questo limbo di melodie e nell'astrusità galattica della stupenda (secondo me) copertina.

Il singolo, Phantom Limb.

http://www.youtube.com/watch?v=OkITsv3Nk6M